V

Parini

1. La vita

La vicenda vitale del Parini è caratterizzata da quelle qualità di saggezza, di equilibrio, di dignità senza enfasi e da quella tenace volontà di collaborazione al progresso e alle riforme civili, economiche, sociali della «patria» lombarda entro il generale movimento rinnovatore italiano ed europeo che, mentre pertengono al carattere morale dell’uomo, trovano chiaro accordo con la sua sostanziale fede illuministica nella natura benefica illuminata dalla ragione e dunque con le piú avanzate condizioni storiche e culturali del suo tempo e in particolare della Lombardia sotto il governo «illuminato» austriaco[1].

A quella cultura e a quel moto riformatore il Parini venne lentamente avvicinandosi e affiatandosi (con una sua personale visione e con una sua personale disposizione letteraria e poetica) durante la sua difficile e povera adolescenza e gioventú, piena di difficoltà economiche a causa della sua umile origine popolare. Infatti egli, che modificò poi il cognome in Parini, era nato il 23 maggio del 1729 in Brianza, a Bosisio, tra i colli che cingono il Lago di Pusiano (il «vago Eupili»), da Francesco Maria Parino, umile mediatore di seta, e da Angela Maria Carpani.

Famiglia appunto popolare, e numerosa, era quella del poeta, che, in un frammento di ode ad Andrea Appiani, ricordò la «casa popolar», l’ambiente e la natura in cui era cresciuto, come il pittore, suo amico e conterraneo, e a cui faceva risalire una prima disposizione naturale al sentimento del «bello» e ad affetti vivi e schietti, secondo una profonda prospettiva che coinvolge (in contrasto con i «clamorosi chiostri» della città) la fiducia nella fecondità della campagna ove la natura è piú libera e autentica e comunica agli uomini virtú attive, disposte piú facilmente agli effetti di una educazione illuminata e coerentemente libera, antipedantesca:

E noi dall’onde pure,

dal chiaro cielo e da quell’aere vivo,

seme portammo attivo,

pronto a levarne da le genti oscure,

tu, Appiani, col pennello,

ed io col plettro, seguitando il bello.[2]

Mancano notizie particolareggiate sulla sua fanciullezza e sui primi rudimenti di cultura appresi, cosí par certo, dai due successivi parroci del paese: Carlo Giuseppe Galbiati e Carlo Giuseppe Gilardi. Quando ebbe compiuto il decimo anno di età, venne condotto dal padre a Milano, in casa della prozia Anna Maria Lattuada, e fu iscritto alle classi inferiori delle scuole di Sant’Alessandro (o Arcimbolde) allora tenute dai barnabiti e frequentate, proprio in quel tempo, nelle classi superiori, da Pietro Verri e Cesare Beccaria. La prozia morí poco dopo, nel 1741, legando per testamento al nipotino dodicenne «un materazzo ad electione del medesimo pronipote», e al padre di lui «la quarta parte di tutti li mobili e suppellettili, perché potesse instruere la casa in Milano». Si augurava che il piccolo Giuseppe volesse mettersi in grado di pregare ufficialmente per l’anima di lei, e perciò, «se continuerà nel stato clericale e vorrà promuoversi al sacerdotio», gli fissava una rendita annua sui beni immobili, per una messa quotidiana. Cosí il giovinetto piuttosto gracile di salute, per «una strana debolezza di muscoli» che lo aveva colpito particolarmente agli arti inferiori fin dai primi anni e si era poi aggravata nella prima giovinezza[3], e desideroso di non interrompere gli studi, si trovò sempre piú decisamente avviato al sacerdozio: missione che abbracciò dunque per necessità e non per vocazione, e che fu definitivamente suggellata dall’ordinazione sacerdotale nel 1754.

Ma i suoi studi, intanto, non facevano molti progressi. Il registro delle scuole di Sant’Alessandro, dove piú volte figura, dal 1740 al 1752, il nome del Parini, ci rivela uno scolaro alquanto negligente, che per tre anni rimase fermo nella classe di teologia speculativa, e nel secondo non frequentò che pochissimi giorni, tanto per ottenere le attestazioni di frequenza, carpite le quali, non si fece piú vedere. La notizia è conservata in forma di postilla nel registro scolastico dell’anno 1749-1750: «Parinus Joseph: ut plurimum abfuit, subdole per aliquot dies interfuit; litteris testimonialibus habitis, abfuit perpetuo».

Lo scarso profitto negli studi scolastici si spiega tenendo conto delle gravi difficoltà economiche per le quali il Parini, già cagionevole di salute, si vide costretto ancora studente a impartire lezioni private e a copiare carte forensi, anche per aiutare i vecchi genitori venuti a vivere con lui a Milano; ma si spiega anche e soprattutto per il fatto che la vivacità spirituale del giovane, insofferente dei metodi antiquati dell’insegnamento e magari dello «spirito corrotto, falso e fazionario» – com’ebbe a dire piú tardi – delle scuole dei frati, si andava volgendo a piú personali e feconde letture dei classici e dei nostri cinquecentisti, con l’incoraggiamento anche del curato di Canzo, Ambrogio Fioroni, che fu il primo ad introdurre il Parini nel mondo letterario milanese.

Nel 1752, appena terminate le scuole, dopo aver frequentato l’ultimo corso che era quello di filosofia morale, raggiunta una modesta sicurezza economica grazie alla piccola rendita lasciata dalla prozia (per ottenere la cui assegnazione i Parini, nel ’51, avevano dovuto intentare una causa con l’esecutore testamentario, Antonio Rigola), il giovane scrittore dava alle stampe un primo libro di rime; sotto il nome, mezzo anagramma e mezzo pseudonimo, di Ripano Eupilino, senza imprimatur ecclesiastico e governativo. Erano novantaquattro fra componimenti sacri e profani, amorosi e satirici, pastorali e pescatorii, che ebbero buona accoglienza e lodi. Per merito loro e per i buoni uffici del Passeroni, il Parini (nel 1753) fu ricevuto nell’Accademia dei Trasformati, che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria Imbonati e raccoglieva (seppure con varia adesione ai suoi ideali moderati – su cui ritorneremo – e con varia durata e coincidenza cronologica) quanto di meglio potesse vantare Milano in fatto di cultura: dal conte di Firmian, ministro plenipotenziario di Maria Teresa in Lombardia, a Pietro Verri, al Beccaria, al Bicetti, al Balestrieri, al Baretti, al Tanzi, all’Agudio, al Passeroni. Fu altresí iscritto alla Colonia Insubre dell’Arcadia, e lo vollero nella loro Accademia anche gli Ipocondriaci di Reggio Emilia che lo ribattezzarono Cataste, mentre solo nel 1777 fu associato all’Arcadia di Roma con lo pseudonimo di Darisbo Elidonio. Frattanto egli si faceva conoscere anche per due ardite polemiche linguistiche (ma non solo – come vedremo – linguistiche) contro il padre Alessandro Bandiera (1756) e contro il padre Onofrio Branda (1760), il primo sostenitore di un toscanismo affettato, il secondo spregiatore del dialetto milanese e dei cultori di esso, quali il Maggi, il Biraghi, il Balestrieri, il Tanzi: purismo, dunque, pedantesco, a cui il Parini, sostenuto da molti altri accademici Trasformati, opponeva un purismo temperato ed aperto ai fecondi apporti dialettali. Mentre, nella difesa del dialetto e della cultura milanese, egli assumeva una prima posizione nazional-regionale che ben lo inseriva fra gli elementi attivi di una società colta e nuova, in via di forte sviluppo, fra i letterati milanesi collaboratori consapevoli del processo riformistico, ad ogni livello, del governo illuminato austriaco.

Ma né la piccola rendita di cui era entrato in possesso, né la notorietà e le amicizie letterarie valevano a fornirgli di che vivere dignitosamente, per cui, introdotto dall’abate Soresi, nel 1754 entrava al servizio dei duchi Gabrio e Vittoria Serbelloni, in qualità di precettore dei figli. Tale ufficio non lo toglieva in tutto dalle ristrettezze economiche e l’epistola di tipo ariostesco-bernesco, Al canonico Candido Agudio (1762), in cui il Parini chiedeva un aiuto soprattutto per la vecchia madre, ne è la riprova:

Io mi rimasi ieri sera muto

per la vergogna del dovervi dire

il tristo stato in cui sono caduto.

Dicolvi adesso: ch’io possa morire,

se ora trovomi avere al mio comando

un par di soldi sol, non che due lire.

Limosina di messe Dio sa quando

io ne potrò toccare, e non c’è un cane

che mi tolga al mio stato miserando.

La mia povera madre non ha pane,

se non da me, ed io non ho denaro

da mantenerla almeno per domane.

Se voi non muove il mio tormento amaro,

non so dove mi volga; onde costretto

sarò dimani a vendere un caldaro.

Per colmo del destino maladetto,

io devo due zecchini al mio sartore,

che già tre volte fu a trovarmi al letto.

D’un altro ancor ne sono debitore

al calzolaro, oltre quel poi che ho, verso

il capitano, debito maggiore.

Sono in un mare di miserie immerso;

se voi non siete il banco che m’aita,

or or mi do per affogato e perso […]

Pan, vino, legna, riso e un po’ di lesso

a mia madre bisogna ch’io mantenga;

e. chi la serva ancor ci vuole adesso.[4]

Tuttavia la dimora in casa Serbelloni, durata otto anni (dal 1754 al 1762), anche se non gli dava la tranquillità economica, lo poneva almeno come spettatore in un ambiente di elevata condizione sociale, a contatto anche qui con persone per vari aspetti di idee aperte: la stessa duchessa Vittoria, amica del Verri, partecipava, pur con una punta di posa da précieuse, ai nuovi interessi culturali e leggeva Rousseau e Buffon; il Soresi era un appassionato sostenitore di riforme nel campo dell’istruzione pubblica; Giuseppe Cicognini, il medico di casa, andava precisando i suoi principi intorno all’obbligo morale e civile di estendere le cure a tutti i malati, anche a quelli affetti da mali considerati, per pregiudizio, vergognosi e colpevoli, e si formava quella esperienza che avrebbe piú tardi esplicata come direttore della facoltà di medicina di Milano e come membro della giunta per la riforma degli studi. In casa Serbelloni (e in altre case aristocratiche legate a quella dei suoi protettori), il Parini ebbe poi modo di osservare e giudicare la vita della nobiltà nei suoi aspetti piú brillanti, fastosi, frivoli, e, nello stesso tempo, poté assorbire ed elaborare personalmente alcune delle nuove idee che dalla Francia dei Voltaire, dei Montesquieu, dei Rousseau, dei Condillac, dell’Encyclopédie (che nel 1758 veniva stampata per la prima volta in Italia, a Lucca) si andavano diffondendo in tutta Europa e penetravano sempre piú profondamente nella Lombardia di Maria Teresa che, grazie anche alla direttiva del governo illuminato di Carlo Firmian e del particolare interesse che da Vienna le dedicava il Kaunitz, era una delle regioni italiane piú aperte al soffio della nuova cultura. Alle idee di questa cultura si ispirarono infatti – come meglio vedremo poi – gli scritti pariniani di questo periodo: dal Dialogo sopra la nobiltà (1757) all’epistola in versi Sopra la guerra (1758), pervasa di sentimenti antimilitaristici, al Discorso sopra la poesia (1761), agli sciolti sul tema del «fuoco», L’auto da fé, coraggiosa condanna delle pubbliche esecuzioni di eretici, di cui la Spagna ancora «si compiaceva», al Discorso sopra la carità (1762), alle odi Su la libertà campestre (La vita rustica, 1758), La salubrità dell’aria (1759), L’impostura (1761).

Intanto, in altri componimenti, letti anche questi, al pari degli scritti polemici sulla lingua, nell’Accademia dei Trasformati, il Parini veniva esercitando la sua vena etico-satirica o fantasiosamente caricaturale: Lo studio, La maschera, Il teatro, il Discorso sopra le caricature, composizioni che appaiono come preannunci di quel lavoro piú profondo che il poeta andava dedicando, in segreto, al poema Il Giorno.

Nell’ottobre del 1762, forse per reazione al gesto della duchessa che aveva schiaffeggiato in un trasporto d’ira la giovane figlia del maestro di musica G.B. Sammartini, il Parini abbandonava casa Serbelloni e, subito dopo, era accolto dagli Imbonati come precettore del piccolo Carlo, cui il poeta, due anni dopo, avrebbe dedicato l’ode L’educazione.

Nel marzo dell’anno seguente, anche per incoraggiamento degli amici Trasformati e dello stesso conte Firmian, veniva in luce, anonimo, presso lo stampatore milanese Agnelli, il Mattino, che ebbe favorevole accoglienza da parte dei giornali e dei letterati, primo il Baretti che, nonostante i suoi preconcetti contro il verso sciolto, salutava con parole di calorosa approvazione il Mattino nel primo numero della «Frusta letteraria» (1° ottobre 1763); e la prima edizione del poemetto non tardò ad esaurirsi, con qualche vantaggio anche economico per il poeta. Non meno favorevoli accoglienze (se si esclude il giudizio di Pietro Verri sul «Caffè») otteneva il Mezzogiorno, stampato pure anonimo per i tipi di Giuseppe Galiazzi, nell’estate del 1765.

Il successo ottenuto dalle prime due parti del Giorno richiamava una piú larga attenzione sul Parini, il quale nel 1766 fu invitato dal ministro Du Tillot a ricoprire la cattedra di eloquenza nell’università di Parma (offerta che il poeta rifiutò, nella speranza di ottenere presto una cattedra a Milano), nel 1768 ebbe l’incarico di adattare per la scena lirica la tragedia Alceste di Ranieri de’ Calzabigi e, un anno dopo, per volontà del Firmian, fu chiamato alla redazione dell’ufficiale «Gazzetta di Milano», dove espresse le sue idee riformatrici, in accordo con quelle del governo, esaltando in particolare la diffusione dell’inoculazione del vaiolo e i nuovi metodi igienici adottati a Parigi per l’evacuazione delle cloache (in evidente coincidenza con i temi delle odi che era già venuto componendo: La salubrità dell’aria del ’59 e L’innesto del vaiuolo del ’65), l’istituzione di ospizi per mendichi a Copenaghen, l’esclusione dalle scene di Roma dei cantori castrati sostituiti da donne (è il tema dell’ode La musica, probabilmente proprio del 1769), e tanti altri episodi e avvenimenti tutti legati allo spirito illuministico e riformistico dell’epoca. In uno degli ultimi numeri dell’anno si annunciava che il Parini, «nuovo regio professore di belle lettere nelle scuole palatine», aveva tenuto, il 6 dicembre, la prolusione «con un discorso italiano sopra l’influenze delle belle lettere nel progresso e nelle perfezioni di tutte le belle arti», alla presenza del conte ministro plenipotenziario e di uno scelto pubblico. Il poeta era stato dunque chiamato alla cattedra dal Firmian, con uno stipendio annuo di lire duemila; e se è vero che al Parini insegnante non mancò successo di scolari e stima di studiosi, è anche vero che non gli mancarono attacchi velenosi da parte del Verri e dei gesuiti. Ma allo scadere del triennio, nel 1773, il Firmian rendeva stabile, con un decreto, la cattedra, e il Parini rispondeva indirettamente alle accuse che gli erano state mosse, con una relazione al ministro Delle cagioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia e di certi mezzi onde restaurarle, nella quale indicava la causa del decadimento nell’essere cadute «molte cattedre dell’università e specialmente quella della eloquenza, in mano de’ frati che vi hanno introdotto il medesimo spirito corrotto e falso» dei loro collegi e scuole.

Intanto, soppressa da Clemente XIV la Compagnia di Gesú (luglio 1773), nel palazzo di Brera, già sede della «Universitas Braydensis» dei gesuiti, si stanziavano le Scuole Palatine riformate col titolo di «Regio Ginnasio». L’accresciuto numero di lezioni e il «concorso di giovanetti non peranco maturi, intervenienti alle altre scuole di Brera», costrinsero il Parini a trattare soprattutto quella parte di belle arti che concerne l’«eloquenza e la poesia», in proporzione «a simile qualità di uditori» (come si esprimeva lo stesso Parini, in una relazione «Intorno alla riforma della cattedra di Brera»), e frutto di quell’insegnamento restarono le Lezioni di belle lettere, intitolate poi Dei principii generali e particolari delle belle lettere applicate alle belle arti (uscite postume a stampa).

Anche fuori della scuola non mancarono al poeta gli incarichi da parte del governo. Nel 1771 gli fu affidata, per le nozze dell’arciduca Ferdinando, la composizione di una «serenata» teatrale, Ascanio in Alba (musicata da Mozart), e, negli anni successivi, ebbe a dettare gli statuti dell’Accademia di belle arti, dell’Accademia di Mantova e della Società Patriottica; fece parte, inoltre, di commissioni di concorso a cattedre vacanti di Brera o di commissioni incaricate di preparare piani di riforma scolastica elementare o di rinnovamento dei testi.

Ma, morta Maria Teresa, incaricato dalla Società Patriottica di scriverne l’elogio, il Parini, che pure aveva in altre occasioni riconosciuto il valore delle riforme della sovrana illuminata, non volle o non seppe venire a capo di quel compito, il che diede nuovi argomenti ai suoi nemici; sicché, alla morte del conte Firmian (1784), corse il rischio di perdere la cattedra. Né piú favorevoli gli furono i primi anni del regno di Giuseppe II, le cui riforme ardite, ma spesso troppo precipitose, causa di largo malcontento nello stato (un’eco se ne coglie nell’ode pariniana di quegli anni, La tempesta) dovevano urtare l’ideale equilibrato e moderato del Parini. Dalla «tempesta» egli uscí, comunque, nel 1791 quando, ristampate a cura del discepolo Agostino Gambardelli le Odi dell’abate G.P. già divolgate, forse anche per la rinverdita fama del poeta, si vide assegnare, oltre la cattedra, la carica di sovrintendente superiore delle scuole pubbliche in Brera con l’aumento dello stipendio a quattromila lire annue e con il permesso di abitare nel palazzo stesso dell’Accademia. Intanto il Parini riprendeva anche la composizione della Sera intrapresa fin dal 1766, e avviava trattative col Bodoni per stampare tutto il Giorno; ma quando, il 4 maggio 1796, il generale Bonaparte faceva la sua entrata in Milano alla testa dell’armata francese, il poema, pur portato molto avanti, non era né compiuto né, tanto meno, stampato.

Alla raccolta del Gambardelli, che includeva, oltre alle odi già ricordate, Il bisogno (1766), Le nozze (1777), La laurea (1777), La recita dei versi (1783), In morte del maestro Sacchini (1786), Il pericolo (1787), La magistratura (1788), Il dono (1790), La gratitudine (1790), il Parini ne veniva in quegli anni aggiungendo alcune altre estremamente importanti: Il messaggio (1793), Alla Musa (1795), A Silvia (1795).

Crescevano intanto intorno a lui giovani allievi in gran parte provenienti da quella nobiltà che egli aveva insieme aggredito ed educato e da cui sarebbero poi provenuti quegli elementi di una nobiltà «borghesizzata» che avrà – a vari livelli di consapevolezza e di decisione – funzioni importanti nella Repubblica Cisalpina Italiana, nel Regno Italico e nella opposizione alla Restaurazione e all’Austria.

Mentre, nel maggiore agio di vita e di socievolezza, con una maggiore parità dovuta alla sua fama crescente, si aggiungono ai rapporti con allievi e ammiratori quelle numerose amicizie di gentildonne lombarde e venete che sollecitano e appoggiano nel Parini un esercizio concreto di affetti e di alta galanteria. Ne risulta una condizione di equilibrio e di saggezza riscaldata da affetti, estremamente propizia al clima delle ultime Odi, anche se – non lo si dimentichi – quella stessa saggezza era pur esposta, e cosí tanto piú interiormente rinforzata, alle prove della cattiva salute, delle ristrettezze economiche mai interamente superate, a momenti di ipocondria, ad assalti di senili passioni infelici, a dissensi con lo stesso governo austriaco che dalle audacie giuseppine era passato, sotto Leopoldo II, a una cautela crescente e sospettosa quanto piú si diffondevano le nuove idealità rivoluzionarie e si iniziava la lotta armata fra la nuova repubblica francese e le potenze conservatrici. Finché l’armata d’Italia del Bonaparte travolse la resistenza piemontese ed austriaca e il 14 maggio 1796 occupò Milano.

Il Parini, che non aveva celato la sua attenzione alle vicende francesi, quando nell’ode La gratitudine del ’90 aveva accennato al «regal Parigi» che «novi a sé fati oggi prepara», e che in una satira anonima del ’94 era stato indicato col Verri, col Beccaria e molti altri come «giacobino»[5] (anche se il suo sdegno umanitario di fronte al «terrore» si era chiaramente espresso nell’ode del ’95, Sul vestire alla ghigliottina. A Silvia), venne chiamato a far parte della Municipalità di Milano, nella terza commissione in cui si trattavano gli affari delle finanze, degli archivi, della pubblica istruzione, dei teatri, della religione, e, nel 1797, nella Società di Pubblica Istruzione. Ma la sua posizione di moderato e certa sua intransigenza morale dovettero render difficili i suoi rapporti all’interno della Municipalità e con i rappresentanti francesi. E se certa aneddotica dei suoi primi biografi (l’aneddoto del Parini che non vuole entrare nella stanza del suo ufficio da cui era stato tolto il crocifisso, dicendo: «Dove non entra il cittadino Cristo, non entra il Parini»; o quello del poeta che a chi gli ingiungeva di gridare «Morte agli aristocratici!» avrebbe risposto: «Viva la repubblica, morte a nessuno!») e la stessa raffigurazione ortisiana dello sdegno pariniano contro i soprusi e le spoliazioni francesi e la condizione servile della Cisalpina rispondono a chiare amplificazioni agiografiche in senso italiano – risorgimentale e antifrancese –, non par doversi negare a tutto ciò una base reale di profondo disagio del vecchio illuminista preso fra il sentimento positivo di una evoluzione che pur rispondeva a sue profonde convinzioni civili e la reazione ai caratteri di violenza, disordine, faziosità, non autonomia di quella. Sicché ne risultavano – in base ai pochi documenti autentici che ci rimangono – prese di posizione contrassegnate da quel disagio anche nei confronti di una soluzione indipendentista unitaria (a cui pare che il Parini accedesse associandosi alla proposta del Saliceti: «Invito a riflettere che se tutta l’Italia si unisse in una sola repubblica potrebbe gareggiare con la francese in tutti i rapporti per la felicità dell’universo») o di una soluzione piú regionale e locale coerente al suo settecentesco senso della «patria» lombarda. Cosí, quando si discusse nella Municipalità circa la missione di tre delegati milanesi a Parigi al fine di ottenere una Costituzione repubblicana per la Lombardia, il Parini, che all’inizio del suo intervento poneva domande assai decise («Si domanda se la causa della libertà milanese si tratti a Parigi; se si tratti a Milano; se si tratti in ambedue i luoghi; o se veramente si tratti in nessuno dei due luoghi»), concludeva per una illegalità della proposta del Serbelloni di preparare un progetto di Costituzione da presentare al Bonaparte, osservando che la Municipalità era «corpo meramente amministrativo» mentre la Costituzione era «oggetto sommamente politico».

Certo è che il Parini smise di partecipare alle assemblee della Municipalità e che poco dopo egli venne destituito dalla sua carica. Cosí si chiariva la sua poco felice collaborazione attiva al nuovo ordine politico, anche se – pure scusando con le ragioni della peggiorata salute e della sopravvenuta cataratta i limiti dei suoi possibili impegni – egli accettò di dirigere, fra ’98 e ’99, una commissione che doveva decidere sulle memorie presentate al concorso «per la organizzazione dei Teatri nazionali» dicendo: «sarò sempre pronto ad impiegare in vantaggio della patria fino alle ultime reliquie de’ miei sensi e della mia salute»[6].

Disagio e malinconia segnano questa estrema zona della biografia del Parini, che appare tormentato dal contrasto fra le ragioni della sua adesione alla causa repubblicana e il suo umanitarismo profondo, la sua avversione per le guerre e la violenza, il suo piú configurato ideale riformistico e gradualistico. Perciò assai significativo (né privo di un residuo impeto etico-politico) appare il frammento di un’ode A Delia, fra il 1798 e il 1799, in cui il Parini rispondeva all’invito di «una ragguardevolissima donna» che voleva da lui un’esaltazione poetica delle vittorie francesi:

Perché infocata il volto

e le luci divine;

e scarmigliato e sciolto

giú per le spalle il crine,

qual dal marmo saltante

di greca man bellissima baccante,

Delia, m’assali e vuoi

che rauca per l’atroce

battaglia i tristi eroi

segua mia lira; e voce

mandi d’alto furore,

nata solo a cantar pace ed amore?

Ahi! se l’orrida corda

fremer farò d’Alceo,

quando la terra lorda

di gran sangue plebeo

mostra col fiero carme,

fra i troni scossi e i ciechi moti e l’arme;

io ti vedrò ben presto

sovra le mamme ansanti

chinar la faccia; e il mesto

ciglio sgorgar di pianti;

e mentre il pianto cade

tutta ingombrarti orror, sdegno e pietade.[7]

Intanto le vittorie francesi si cambiavano in sconfitte, l’armata d’Italia dello Schérer veniva battuta dagli austro-russi, e questi il 28 aprile 1799 entravano in Milano.

Il Parini, sempre piú gravemente ammalato, scampò, per i suoi meriti di professore e di collaboratore del governo austriaco, alle persecuzioni dei nuovi dominatori e, pur rifiutandosi a precisi atti di sottomissione, cercò di esprimere i suoi sentimenti di fronte alla nuova situazione in un celebre sonetto che per la terzina finale spiacque al governo austriaco restaurato.

Infatti, se il sonetto esalta in toni biblici la fine di una vicenda di cui il Parini ora vedeva soprattutto gli aspetti di sopruso e spoliazione da parte dei francesi, la terzina finale è certo la punta piú intenzionale, la reale giustificazione del sonetto: essa cioè vuol soprattutto ammonire il governo restaurato a far splendere «la giustizia e il retto esempio» e fa implicitamente ricadere la colpa dei successivi sconvolgimenti sull’ancien régime (di cui pure il Parini poteva senilmente vagheggiare gli aspetti del riformismo dei Kaunitz e dei Firmian):

Predâro i Filistei l’arca di Dio;

tacquero i canti e l’arpe de’ leviti,

e il sacerdote innanzi a Dagon rio

fu costretto a celar gli antiqui riti.

Al fin di Terebinto in sul pendio

Davidde vinse; e stimolò gli arditi;

e il popol sorse; e gli empi al suol natio

fe’ dell’orgoglio loro andar pentiti.

Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo

e l’arca è salva; e si dispone il tempio

che di Gerusalem fia gloria e vanto.

Ma splendan la giustizia e il retto esempio;

tal che Israel non torni a novo pianto,

a novella rapina, a novo scempio.[8]

Lo stesso giorno, 15 agosto 1799, il vecchio poeta si spegneva nella sua abitazione a Brera e veniva sepolto nel cimitero di Porta Comasina con funerali semplicissimi, come egli aveva voluto nel testamento:

Voglio, ordino e comando che le spese funebri mi siano fatte nel piú semplice e mero necessario, ed all’uso che si costuma per il piú infimo dei cittadini.[9]

2. Parini e l’illuminismo

Oltre che nelle opere maggiori di poesia (Giorno e Odi), su cui avremo modo di insistere particolarmente alla luce dell’intervento rinnovatore della poesia e dell’arte, la posizione storico-personale del Parini trova una larga documentazione in scritti in versi e in prosa che, non privi di una loro generale tensione artistica, e di un loro valore letterario, piú si prestano ad una ricostruzione documentaria di atteggiamenti, prese di posizione, aspirazioni e convinzioni profonde del poeta illuminista, del «saggio» che li fa convergere nel suo fondamentale amore per il bene pubblico, per la pubblica felicità, per un mondo umano illuminato dalla «ragione» e dalla «virtú», riscaldato dal «piacere» e reso autentico e schietto dalla «natura», madre benefica e datrice di affetti liberi e sinceri in un rapporto circolare ed armonico di tali nozioni fondamentali: da cui risulta la pienezza non fittizia di un equilibrio, di una misura, di una saggezza, che, se possono mostrare il loro limite storico e personale specie di fronte alla forza di rottura di un Alfieri e, magari piú tardi, alla tanto piú complessa saggezza goethiana o al tesissimo Mass hölderliniano o alla stessa «armonia» del Foscolo, non possono neppure ridursi a timidezza, a soluzione puramente letteraria di un «artefice» solo casualmente impegnato in contenuti piú arditi e, a mano a mano, ricondotti in un cerchio estetico di smorzamento e smussamento di tipo umanistico-arcadico. La fondamentale posizione di persuasione (Parini è un persuaso, non un gretto razionalista, né un mistico) nel progresso ordinato e graduale dell’umanità (riverberato piú concretamente nel progresso della città e dello stato regionale alle cui sorti il Parini si sentí sempre doverosamente legato pur nel vivo, consapevole rapporto con la situazione italiana ed europea) non manca di una presa di coscienza storica, di tipo chiaramente illuministico, del progresso umano particolarmente italiano: un progresso che trae le sue origini dall’alto mondo esemplare dei classici nella loro unione spontanea e consapevole di Natura e Ragione, che si alimenta dell’intervento del cristianesimo in chiave nettamente umanitaria e attivamente caritatevole, rifiutandone le componenti superstiziose e dogmatiche, autoritarie (donde la chiara antipatia per il Medioevo e la Controriforma) e che, sulla base del pensiero critico ed empiristico-razionalistico rinascimentale, trova una sorta di pienezza dei tempi nella civiltà illuministica, soprattutto nella sua passione per la verità e nell’uso pragmatico della ragione in vista di una riforma ad ogni livello: riforma anzitutto di costume, riforma di condizioni di vita, riforma di rapporti sociali, riforma di cultura entro il quadro di un assolutismo illuminato che può aprirsi a forme piú democratiche di governo, purché non manchi mai la concretezza della riforma graduale e la certezza di un moto ordinatore e non eversore.

Persuaso della necessità della riforma illuministica e delle sue mète di progresso e di civiltà, il Parini (ci piaccia o non ci piaccia) non è un rivoluzionario, e la corretta identificazione della sua scelta di un metodo riformistico graduale e cauto (cosí coerente alla sua natura e alla sua generale prospettiva vitale equilibrata e misurata) sin dalla fase piú polemica ed aggressiva della sua attività di letterato militante è essenziale a comprendere tutto l’arco del suo svolgimento di scrittore e di uomo (fin entro la difficile fase finale della sua vita nel periodo della Repubblica Cisalpina), intendendone i mutamenti, ma correggendo la tentazione di duramente contrapporre una prima posizione eversiva, magari presocialista, e piú tardi un disimpegno totale dagli ideali della riforma civile e morale di origine illuministica.

Il Parini appare sempre diffidente ed ostile di fronte ad ogni brusca e affrettata rottura dell’ordine presente, come ci attesta chiaramente la significativa contrapposizione, nei Ciarlatani, del ’62, tra il filosofo riformatore prudente che compie sicuri passi avanti nella via del progresso e il dottrinario fanaticamente sistematico ed estremisticamente eversore:

Un filosofo viene

tutto modesto, e dice:

– Bisogna a poco a poco,

pian pian, di loco in loco

levar gli errori dal mondo morale:

dunque ciascuno emendi

prima sé stesso, e poi de gli altri il male. –

Ecco un altro che grida:

– Tutto il mondo è corrotto;

bisogna metter sotto

quello che sta di sopra, e rovesciare

le leggi, il governare

non è che il mio sistema

che il possa render sano. –

Credete al primo; l’altro è un ciarlatano.[10]

Questa prospettiva moderata è una costante fondamentale degli atteggiamenti ideologico-pratici del Parini, ma essa non può neppure risolversi solo in timidezza e gusto del compromesso ritardatore di un piú forte moto storico, perché a quella prudenza e volontà di concretezza non manca il genuino accento di una decisa persuasione, di una fede in un sicuro progresso umano, morale, civile, che supera quanto a profonda partecipazione e chiarezza personale quello che poteva essere un semplice accompagnamento dell’azione riformatrice ufficiale da parte di un nuovo tipo di poeta cortigiano.

L’adesione profonda del Parini agli ideali dell’illuminismo è ben chiara e costante. Ed essenziali saran da considerare da tal punto di vista – in un irraggiarsi assai sfaccettato di problemi coordinati al tema fondamentale di un progresso riformistico per l’«utile» dell’uomo, per la pubblica e privata felicità fra loro indissolubili, per il trionfo di Piacere-Virtú e Natura-Ragione – scritti come la recensione del Quadro dell’istoria moderna del Mehegan o come la relazione al Firmian Delle cagioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia e di certi mezzi onde restaurarle.

Nel primo, del 1767[11], impostato sull’idea che la storia è soprattutto «utile» all’uomo, alla condotta «nella presente vita» dei «privati», «ministri», «principi», «nazioni», quando essa non si risolva in uno sfoggio di erudizione, ma miri a individuare il «filo» essenziale del cammino umano (come fecero tre «grandi» francesi, Bossuet, Montesquieu e Voltaire), l’attenzione del recensore è costantemente volta a seguire i «buoni semi» che «cominciano a fermentare» fra «le tenebre della filosofia» scolastica in direzione del Rinascimento, origine e base dell’età presente, sí che l’interesse maggiore portato da lui allo studio delle epoche medievali è costituito dal fatto che in quelle e nella loro oscurità

come in profonda voragine, veggiam discendere un mondo e uscirne un altro; terminare una costituzione e una serie di cose, e ricominciarne un’altra totalmente diversa e totalmente legata colla presente.[12]

Nel secondo, del 1773, ben significativo anche per la cauta ma ferma spregiudicatezza con cui il Parini consiglia al governo austriaco-milanese piú la scelta dei buoni maestri nelle scuole e la libertà da concedere ad artisti e scrittori che non la disciplina uniforme degli insegnamenti o i privilegi delle accademie protette, colpisce la decisa chiarezza con cui il Parini collega la decadenza delle belle lettere e delle belle arti in Italia, dopo la fioritura del Rinascimento, con alcune cause politiche e civili ben precise:

Nessuno negherà certamente che l’oppressione della libertà fiorentina, l’eccessiva potenza degli Spagnuoli in Italia, che ne facevano barbaramente tiranneggiare le piú belle contrade da’ loro governatori, la caduta della grandezza veneta dopo la lega di Cambrai, la ipocrisia introdottasi nella Corte di Roma dopo la riforma di Lutero, e la crudeltà dell’Inquisizione, spezialmente dopo il concilio di Trento, non abbiano spento in Italia ogni sentimento di gloria nazionale, di nobile emulazione ed ogni libertà pubblica di pensare e quindi sommamente avviliti gli animi di quasi tutti gl’Italiani. Ciò doveva dare alle Belle Lettere ed alle Belle Arti in Italia il carattere della servitú, della mediocrità e della barbarie.[13]

Condanna della congiunta oppressione politica e religiosa che trova poi, nella fine dello scritto, una lucida e appassionata ripresa, appuntita contro le scuole, affidate agli ordini religiosi (non si dimentichi che in quegli anni, per impulso del co-reggente Giuseppe, il governo della Lombardia austriaca mirava a togliere scuole e università agli ordini religiosi: programma a cui, come si vede, il Parini collaborava e contribuiva con simili prese di posizione) alla cui ignoranza e faziosità il Parini fa risalire la decadenza dell’«eloquenza» in Italia, e particolarmente in Lombardia:

Venendo poi all’eloquenza, il che piú importa, non deve far maraviglia che nel nostro paese, generalmente parlando, non si conosca la buona eloquenza italiana, sebbene, e per gli antichi stabilimenti e per l’intromissione di tanti regolari all’ammaestramento della gioventú, sieno altronde cosí moltiplicate le scuole dell’umanità e della rettorica.

Chi risguarda la decadenza in cui sono già da gran tempo le scuole regie, e quelle d’antica patria istituzione, per mancanza di chi vegliasse al buon regolamento di esse; chi risguarda la mediocrità, la bassezza, state sempre, e la maggior corruttela, sopravvenuta di poi, in tutti i generi di scuole formalmente poste o tacitamente ridotte sotto la direzione de’ frati, vedrà perché tutti i ceti delle persone, che per natura delle loro professioni debbono scrivere e parlare a’ ministri, al governo, al principe, al popolo, manchino di giustezza, di precisione, di chiarezza, di metodo, di scelta, di gusto, di forza, e finalmente di tutto quello che noi chiameremo eloquenza della cosa, vale a dire accomodamento delle maniere del discorso alle circostanze delle materie, de’ tempi, de’ luoghi e delle persone.

Non parleremo delle cattedre dell’università e d’altre d’antica instituzione patria, poiché è talmente noto l’estremo dicadimento in cui sono, che la clemenza del principe non ha potuto a meno di non rivolgersi ad una totale riforma di esse. Solo toccheremo che l’esser cadute, per molte e replicate combinazioni, quasi sempre in mano de’ frati molte cattedre dell’università, e spezialmente quelle dell’eloquenza, ciò vi ha introdotto il medesimo spirito corrotto, falso e fazionario che si vede nelle loro istituzioni domestiche, ne’ loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute sotto alla loro cura».[14]

Questi giudizi, nettamente illuministici, fan ben comprendere come nella misura e cautela pariniana vivessero saldi principi riformatori e laici e decise valutazioni storiche che implicavano una prospettiva combattiva e persuasa nella difesa della nuova filosofia e della nuova morale nata con il razionalismo e portata ad esiti pratici dall’illuminismo, come epoca kantianamente di uscita dalla «minore età», del sapere aude e, ciò che piú stava a cuore al Parini, dell’agere aude.

E fanno ben comprendere come la stessa pietas del sacerdote Parini, che, come vedremo, è certamente sincera e profonda (anche se tutta configurata in forme di fraternità egualitaria e umanitaria, a cui essenziale è la componente illuministica, la purificazione illuministica dell’elemento «cristiano» da ogni incrostazione superstiziosa e fanatica e da ogni abbandono mistico e ascetico), non ostacolasse (anzi a suo modo rinforzasse) la decisa polemica antiecclesiastica, l’attacco alla volontà di potenza e di privilegio – specie sulle coscienze – degli ordini religiosi, degli ecclesiastici in genere, della curia pontificia.

Ne sarà prova inconfutabile il celebre sonetto di esultanza per la soppressione, nel ’73, della Compagnia di Gesú:

L’arbor fatale che di rami annosi

tanta parte del ciel coperta avea;

l’arbor che, impuro asil d’augei schifosi,

atra e mortal d’intorno ombra spandea;

l’arbor che pregne di veleni ascosi

ma lusinghiere poma altrui porgea;

l’arbor sotto del qual lieti riposi

prender sicura l’Empietà solea;

pur cadde alfin! Dell’aspra doglia insano

il re d’Averno con immonde trame

tentò impedir la sua rovina invano.

Bello il veder con pronte accese brame

l’alme Virtudi e il gran pastor romano

i lor colpi alternar sul tronco infame![15]

O la severa pagina del proclama In nome di Pasquale Paoli, del ’69, che sconsiglia nettamente, nella scelta di persone adatte a «stendere un piano d’Università ed una forma di pubblico Studio», sia i frati per quello «spirito corrotto, falso e fazionario, che ordinariamente si vede nelle loro instituzioni domestiche, ne’ loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute alla loro cura», sia i preti, perché (dice il Parini, pur con la cautela dell’eccezione finale)

per quanto io ho letto, veduto e provato colla sperienza, mi sono convinto che, dove il popolo è ignorante, il ceto degli ecclesiastici lo è ugualmente: e tanto piú quanto che questo ceto, essendo ignorante, ha delle opinioni che direttamente s’oppongono all’avanzamento delle umane cognizioni, ed ha delle superstizioni che contribuiscono a far crescere ed a promulgare l’ignoranza medesima; e s’immagina d’avere un particolare interesse a coltivarla, né s’avvede che il maggiore interesse d’un cittadino si è l’interesse di tutti. Finalmente io ho veduto che, qualora si comincino a spargere qualche lumi di verità in una nazione, non so se per le anzidette o per altre ragioni, gli ecclesiastici son sempre gli ultimi a profittarne e i primi ad impedirne il progresso, e sembra ch’essi temano che le verità filosofiche debbano cercar pregiudizio alle verità della fede, quasi che la verità possa giammai condurre all’errore. Questo nondimeno che io dico, lo dico parlando generalmente, perché altronde ne ho conosciuto e ne conosco alcuno che merita d’essere eccettuato.[16]

Cristiano «illuminato», il Parini si sente libero (diversamente da un Muratori) da ogni solidarietà ecclesiastica e cattolica anche se progressiva e illuminata, e la sua religiosità punta decisamente su valori attivi e mondani riserbando, al massimo, per le monacazioni di fanciulle un omaggio alla loro libertà di scelta, all’esercizio di una purezza femminile piú ammirata che amata, ma comunque significativamente insistendo sul valore delle loro schiette preghiere rivolte a Dio per il bene dell’umanità piú che per una privata ascesi e salvezza individuale[17].

Quali sono infatti i «santi» del passato che egli esalta? San Bernardino che a Milano attacca «impavido» il signore crudele e fastoso, e si batte per la pace della città in nome di Cristo testimone di fratellanza e di un amore per gli uomini esercitato fino al supplizio[18], santa Caterina Moriggia che uní alle preghiere il lavoro (senza cosí mai pesare oziosamente al «suol natio») e che

de’ poverelli asciugò il pianto

con acqua e pane, e li raccolse al seno,

utile a gli altri e al suo Signor piú cara

(sí che il poeta esorta il popolo a lei devoto ad onorarla, piú che con inni e incenso, con l’imitazione delle «sue bell’opre»[19]) o san Girolamo Miani che con la sua opera caritatevole insegna «che, giovando a l’uomo, a Dio si piace» e che di fronte a tutti i bisognosi, qualunque sia la loro razza o idea,

offrirà la sua povera mensa,

e vorrà parte aver ne la lor fame;

perocché tutti con affetto eguale

sa gli uomini abbracciar quell’alma immensa,

e fa suo cittadino ogni mortale.[20]

La religiosità pariniana è sempre volta alla vita libera della coscienza e alla prassi morale, che costituiscono per il Parini la vera «pietà», se (come dirà nell’Educazione) «nell’alma è il primo altare» e se, come dice l’ottava di prefazione alle Lettere del Conte N.N. ad una falsa divota (presentate come «tradotte dal francese»), piú della devozione conta l’«esser dabbene»: il che poi (come risulta da quelle Lettere assai spigliate e «alla francese», certamente opera del Parini) comporta un deciso rifiuto della bacchettoneria ipocrita, della rugiadosa indulgenza di tipo gesuitico, del rigorismo che si risolve in una smisurata presunzione e in un effettivo odio del prossimo.

Che è quanto dice il Conte N.N. citando la pagina di un «eretico» e poi ironicamente confutandola qui in modo da ribadire i concetti fondamentali:

L’autore dice adunque cosí: «Ciò che rende piú insoffribili i divoti di professione si è una cert’asprezza di costumi, per cui sono insensibili all’umanità, un cert’orgoglio eccessivo che fa loro guardare con occhio di pietà tutto il resto del mondo. Se nella loro elevazione eglino degnano di chinarsi a qualche atto di bontà, il fanno eglino con tanta soverchieria, essi compiangono gli altri con modi tanto crudeli, la loro giustizia è tanto rigorosa, la loro carità è cosí dura, il loro zelo è tanto amaro, il loro disprezzo tanto si rassomiglia all’odio, che la stessa insensibilità della gente di mondo è meno barbara della loro compassione. L’amor di Dio serve loro di scusa per non amare nessuno, ed egli non s’amano neppur tra di loro: avete voi veduto giammai tra i divoti una vera amicizia? Ma quanto piú eglino si staccan dagli uomini, tanto piú pretendono da questi, e si potrebbe dire che non si alzano a Dio per altro, fuorché per esercitare la loro autorità sulla terra». Questo miserabile eretico, Elisa mia, non sa quel che si dica: egli scambia per asprezza di costumi quel nobile zelo con cui una divota non dee saper perdonare il menomo fallo al suo prossimo peccatore, e per orgoglio il generoso sentimento de’ proprii meriti paragonati coll’altrui meschinità. In fine egli pretende che i divoti debbano avere quella tenerezza e carità per li mondani, che, come ho detto dapprincipio, alcuni troppo rigidi e scrupolosi vogliono che sia uno de’ caratteri di quella loro supposta vera ed unica divozione. Vedete di grazia le belle massime! Se queste massime fossero vere, credete voi che potessero entrare in capo anche ad un tizzone d’inferno qual è un eretico?[21]

La religione cristiana è cosí vissuta dal sacerdote illuminista in una prospettiva libera e attiva, come incremento di una morale umanitaria e civile che, mentre rifiuta decisamente ogni forma di intolleranza, di superstizione, di volontà di potenza ecclesiastica (donde il chiaro appoggio a Giuseppe II e alla sua politica regalistica e giurisdizionalistica, fino all’avvertimento a Pio VI, in occasione del suo infelice viaggio a Vienna nel 1782, a non dimenticar mai ch’egli non è che il «successor di Piero», a cedere all’imperatore «di questa terra i troni / che gli eterni decreti a te non diero»[22]), converge decisamente nel grande tema pariniano dell’«utilità» e del bene pubblico, al cui progresso tutti, e principalmente i filosofi e i letterati, sono doverosamente obbligati a collaborare.

Alla luce di questo tema illuministico tutti gli atteggiamenti di vita e di poetica del Parini appaiono coerenti e coordinati, senza perciò ridurre l’alacrità sentimentale e poetica, la fertilità di gusto e di inventività originale del poeta-artista, dell’uomo immaginoso e sensibile, ma anzi rafforzandone l’impegno centrale, mai spento anche se atteggiato – come vedremo – in prospettive varie e successive, in un movimento, tutt’altro che monotono, di poetica e di poesia.

La preoccupazione assillante del Parini è un alto utilitarismo umano e civile che, mercè le componenti attive di natura-ragione, piacere-virtú, sensibilità-saggezza, si pronuncia vigoroso e fervido, aperto allo slancio fantastico ed edonistico, al realismo denso ed elegante, al linguaggio cesellato e corposo, vibrante ed icastico e poi, nell’evoluzione della sua poetica, piú disteso ed armonico.

Mai il Parini perde di vista la sua ansia di collaborazione al bene di tutti, alla concreta città degli uomini, al progresso sicuro e concreto (e perciò, nella sua prospettiva riformistica, graduale e prudente) dell’umanità e, in particolare, della sua «patria» lombarda.

Cosí, sol per portare qualche esempio di un tessuto morale denso e fitto fin nei componimenti e scritti minori e magari occasionali lungo tutta la vita del poeta, e prima dunque di verificare le punte alte delle opere maggiori e di rilevarne gli aspetti piú energicamente combattivi nella fervida zona di preparazione del Giorno e nell’incontro esaltante con i principi dell’illuminismo maturo, si pensi a ciò che può dirci un sonetto come quello Per un pallone aerostatico, del 1784 e dunque contemporaneo all’Ode per il signore di Montgolfier del Monti. Mentre questi, tutto preso dall’entusiasmo generale, giungeva nell’inebriato finale a veder l’uomo vicino a «libare il nettare» con Giove in cielo, il Parini, pensoso di una felicità fatta di pace e di convivenza civile, giudicava la mirabile scoperta alla luce di una doppia possibilità di giovamento o di nocumento di essa rispetto alla felicità umana, facendo dire dallo stesso pallone alla Natura, madre e giudice, le seguenti parole:

– O madre delle cose! Arbitrio prenda

l’uomo per me di quest’aereo regno,

se ciò fia mai che piú felice li renda:

ma, se nocer poi dee, l’audace

ingegno perda l’opre e i consigli; e fa’ ch’io splenda

sol di stolta impotenza eterno segno. –[23]

Questa alta, severa preoccupazione dell’utilità pubblica, del bene degli uomini, si particolarizza nell’assidua attenzione a Milano, alla città «patria», parte concreta di una civiltà umana al cui benessere il poeta è anzitutto tenuto a collaborare e a cui anzitutto si rivolge il suo amore pur non fazioso e campanilistico, geloso della sua gloria e delle sue tradizioni locali, ma piú ancora (poiché il Parini vive soprattutto fervidamente nel presente e nella sua premessa feconda di futuro) volto a illustrarne la bellezza, comodità, salubrità attuale o a stimolarne le trasformazioni sin urbanistiche e igieniche (si pensi alle prime Odi e anzitutto alla Salubrità dell’aria), l’accrescersi delle istituzioni culturali, il perfezionarsi delle condizioni economiche, amministrative, civili.

Il Parini, vissuto (si ricordi) sempre a Milano e in Lombardia, trae compiacimento e letizia nella descrizione della città in crescita, delle sue feste (la festa è un momento essenziale, quasi sacro, della prospettiva civile pariniana), dei suoi giardini propizi al passeggio e al divertimento cittadino, punto di incontro fra la città e la natura benefica ed alacre.

Sicché nella Descrizione delle feste celebrate in Milano per le nozze delle Loro altezze reali l’Arciduca Ferdinando d’Austria e l’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este (1771) ha un posto privilegiato e come un indugio piú poetico e simpatetico la descrizione del passeggio sulle mura tra Porta Orientale e Porta Nuova:

Il dopo pranzo del giorno diciotto fu destinato, con solenne concorso de’ principi, della nobiltà e del popolo, al delizioso passeggio sopra le mura tra la Porta Orientale e la Porta Nuova. Questa parte della città è veramente la piú amena e quella che gode d’un’aria salubre. L’ampiezza del luogo vi appresta tutto il comodo immaginabile a qualunque folla straordinaria di carrozze e di popolo; e l’elevatezza di quello presenta un assai vasto e piacevole orizzonte. Da un lato si domina la vasta pianura, il giro delle non molto distanti colline e finalmente l’alta catena de’ nostri monti; a fronte una gran parte delle lontane Alpi, e dall’altro lato uno de’ migliori aspetti della città. Si sale da questa insensibilmente alle mura; e nell’ora del passeggio scopresi la bellissima pompa d’una innumerabile quantità di carrozze quivi schierate, e di popolo che vi si sta divertendo.[24]

Mentre colpisce nello stesso lungo scritto, commissionato dalla corte di Milano ma cosí chiaramente permeato di tipici sentimenti pariniani, la minuta e compiaciuta attenzione data alla mascherata dei facchini delle valli del Lago Maggiore, in cui il gusto del Parini per il bizzarro, il pittoresco, l’elegante, fatto di schiettezza e pur non privo di «capriccioso» e di «nuovo», si incontra con il suo amore per una certa ruvidezza di costume locale e popolare e si esalta nella certezza di una festività mite e bonaria che lo porterà a confrontare positivamente questa mascherata[25] gaia e innocente con feste e giuochi cruenti come il giuoco del Ponte a Pisa (che tanto invece entusiasmava lo spirito nazionalromantico dell’Alfieri) in un sonetto, del 1785, In occasione d’una mascherata di facchini per i reali di Napoli, in cui, puntando sul presunto amore di quei reali per il popolo, verifica questo nella sua consonanza con il «mite scherzo» della pacifica gente lombarda:

Ché, se destra incitò tue voglie, pronte

ai forti studi e all’utile fatica,

gente feroce in sul toscano ponte,

noi mostrerem, ne la sembianza antica,

con mite scherzo a te scesi dal monte,

quant’hai la mente ai dolci sensi amica.[26]

Il Parini infatti non ama la guerra (e meglio vedremo il suo acceso antimilitarismo nel componimento La guerra nel periodo piú espansivo delle sue idealità illuministiche prima del Giorno), come non ama in genere la violenza e la passione incontrollata, pur sentendo fortemente la necessità di forti affetti ed istinti come radice essenziale di una virile saggezza, di una civiltà pacificamente energica e tutt’altro che idillica e rinunciataria. Qui è infatti il nodo piú delicato della posizione storico-personale del Parini fino alla sua traduzione in poetica e poesia.

Il Parini sa (sulla base della sua cultura e della sua esperienza di sensista) che l’uomo vive anzitutto di sensazioni, di impressioni vive ed autentiche, di passioni e di istinti naturali e insopprimibili, sí che sopprimerli è operazione scellerata ed assurda. Sa che l’uomo cerca la felicità e il piacere, la vita intensa di sensazioni e di passioni, com’egli dice in un essenziale «pensiero», il VII, che chiarissimamente esprime il fondo edonistico-sensistico della prospettiva vitale pariniana:

Dio e la natura ci comandano di vivere, non già solamente con una legge scritta e pubblicata, come proveniente dai motivi superiori della religione e dall’amore dell’ordine universale ben conosciuto; ma molto piú con una infinita e variata serie di sensazioni piacevoli, delle quali, rispettivamente a noi, è composto e formato il nostro vivere. Queste, senza anticipamento della nostra riflessione, e quasi malgrado nostro, ci rendono caro il momento attuale della nostra esistenza; queste ci fanno veementemente desiderare altri simili momenti per l’avvenire, e, se fosse possibile, per tutta l’eternità; queste, mercé della nostra propria sperienza e dell’osservazione che facciamo sopra degli altri, ci fanno, a dispetto nostro e con grandissima fiducia, sperare gli stessi momenti che desideriamo; queste finalmente ci allontanano con ribrezzo dalla idea della loro interruzione, e con raccapriccio ed orrore dall’idea della loro cessazione totale.[27]

Su tale punto egli è sempre deciso, non dissociando mai la virtú, la saggezza, la ragione da istinti, passioni, sensazioni piacevoli che la natura (e addirittura Dio) ha immesso nell’uomo sin dal suo nascere.

Da ciò deriva il suo profondo antiascetismo, il suo amore per la vita feconda (donde la sacralità dell’amore e delle nozze a cui si legano alcuni dei suoi momenti poetici piú schietti), per la festa, per la stessa laboriosità umana, sentita non come maledizione e condanna, ma come un esercizio fecondo con cui l’uomo costruisce la sua vita, piacevole perché attiva e illuminata da sobri e sicuri piaceri. Perché egli sa che la stessa festa, lo stesso piacere non sono frutto di evasione edenica e arcadica, ma di laboriosità e di impiego attivo e fecondo degli istinti e delle passioni e che la benefica natura offre un materiale profondo di potenzialità attuabili solo mediante l’uso della ragione e della virtú e che queste sono forze personali-sociali, sí che la felicità è attuabile solo nel bene di tutti, nell’armonia di una civiltà coerente e saggia di cui una élite non privilegiata, ma piú matura e consapevole, è guida, non padrona capricciosa e dispotica.

Da tali convinzioni profonde nasce la fiducia pariniana in un progresso fatto di qualità naturali e di volontà razionale, di istinto al piacere e alla felicità e del loro indirizzo ad una felicità civile che richiede misura, saggezza, equilibrio. Da qui nasce il fervido e calmo ottimismo (tanto superiore a quello di un Metastasio) provato in un’esperienza concreta e storica (l’età delle riforme e dei «lumi», la Milano in progresso fra i regni di Carlo VI, Maria Teresa e Giuseppe II) e assicurato in una mentalità lucida e vigorosa che trae forza dalla sua profonda adesione alla verità, alla sincerità, alla schiettezza, all’unione provvidenziale di natura e ragione, piacere e virtú, passione e saggezza.

Ottimismo virile tutt’altro che facile e sprovveduto, se egli può pure avvertire, in un acuto pensiero (ripreso poi ad altri livelli da Foscolo e Leopardi) sulla ragione per cui i poeti sono «meglio riusciti a dipingere i tormenti dell’inferno che i piaceri del cielo o degli Elisi», che «forse l’uomo conosce piú i dolori che i piaceri, la calamità che la felicità» e che «il bene forse non è altro che la negazione del male»[28], e se nella stessa sua esperienza biografica non mancarono certo profondi avvertimenti della resistenza del male e dell’infelicità, dello sbandamento a volte irresistibile delle passioni piú irragionevoli e perniciose[29].

Ma la fiducia non è perciò vinta e la risalita, a vari livelli, verso una certezza di felicità nella saggezza e nella civiltà, non mancò mai di pronunciarsi come momento caratterizzante della natura progressiva dell’uomo, siglando con un severo edonismo morale la spirale di esperienza e di volizioni dell’individuo umano. Anche perciò la via poetica del Parini non fu quella preromantica, anche se nel suo classicismo illuministico-sensistico e poi nel suo neoclassicismo preme tanta ricchezza di realismo, di sentimenti schietti e pungenti, di forza naturale e sin popolare, di autentica denuncia polemica, che sarebbe errore non capire poi come rapporto fecondo che può legare la sua esperienza ad aspetti ed elementi fondamentali del romanticismo italiano.

Non fu, ripeto, quella preromantica, perché la saggezza, l’equilibrio, l’arte come traduzione estetica di saggezza ed equilibrio, la volontà e capacità di sublimare l’oscuro fermento della realtà passionale in armonia e conclusione rimasero e divennero sempre piú mète non artificiose dell’animo pariniano. Donde il severo giudizio del Leopardi sulla forza di passione e di sentimento del Parini che storicamente va ridimensionato nell’accertamento di un particolare limite storico-personale di quella poesia da cui pur risultano la sua particolare forza e il suo valore.

Poeta dell’illuminismo nelle sue centrali aspirazioni e tensioni entro una versione moderata e riformistica che non ne perde però (specie nel periodo di maggiore entusiasmo combattivo del poeta riformatore) la carica rinnovatrice, la persuasione di aprire una nuova era piú umana e civile, piú razionale e naturale, il Parini trovò condizioni propizie al suo impegno poetico-civile nella situazione della Lombardia austriaca in cui, dopo le prime riforme di Carlo VI, i governi del periodo teresiano e giuseppino, specie ad opera di ministri «illuminati» a Vienna e a Milano (anzitutto il Kaunitz e il Firmian), impostarono e vennero attuando un imponente programma di riforme in campo economico, fiscale, giurisdizionale-ecclesiastico, urbanistico-igienico, scolastico, rianimando agricoltura e commercio, riducendo il prepotere esoso dei fermieri[30] e il peso dei privilegi feudali ancora esistenti, cercando e trovando collaborazione attiva nei gruppi di intellettuali lombardi piú avanzati e pur divisi fra l’audacia piú aperta dei giovani illuministi della «Società dei Pugni» e del «Caffè» (fra i quali l’illuminismo italiano trovò alcune delle posizioni piú vive e nuove anche a livello europeo, come nel caso del Dei delitti e delle pene del Beccaria) e la posizione piú chiaramente moderata e riformistica di altri, come appunto il Parini. Ma non si creda che l’opera sua sia rappresentabile come quella di un semplice collaboratore zelante e disciplinato, mosso solo, volta per volta, dall’iniziativa governativa, ché viceversa il Parini – pur nell’ossequio e nella persuasione, specie in epoca teresiana e nell’inizio dell’epoca giuseppina, della sostanziale bontà del programma e della volontà politica del governo austriaco, e convinto della necessità del centralismo illuminato, della direttiva unitaria nelle mani del principe e dei suoi diretti collaboratori[31] – si considerò e fu un collaboratore responsabile e dotato di propria capacità di discussione e di adesione o dissenso motivati, ed errore gravissimo sarebbe immaginarsi il Parini come un letterato ed artista che accetta contenuti e motivi dall’iniziativa governativa per decorarli e illustrarli con la sua arte e la sua eloquenza senza profonda necessità e volontà personale[32].

Del resto i dissensi non mancarono a volte. Come nel caso dell’ode La tempesta e di fronte a preferenze di sviluppo commerciale a possibile scapito di quell’agricoltura che rimane la forza di base nella prospettiva fisiocratica del Parini, e che ben fa capire il limite della presunta arcadicità delle sue frequenti immagini poetiche della campagna e della vita dei contadini e il loro raccordo profondo con il suo ideale di natura feconda, datrice di vita sin nella costituzione dello stato, della società e della loro forza economica e sociale[33]. Come, alla luce della sua prospettiva riformatrice gradualistica, ma sicura, della necessità di una mèta e di un iter di progresso, poté avvenire di fronte ad audacie radicali del regime giuseppino e viceversa di fronte all’involuzione e all’allentamento del periodo di difesa del governo leopoldino rispetto all’affermazione e all’espansione rivoluzionaria francese.

Né d’altra parte, nel piú vasto campo ideologico dell’illuminismo lombardo ed europeo, il Parini può apparire un semplice tradizionalista di fondo, trascinato, e recalcitrante, dal moto della storia o addirittura (secondo tesi di critici cattolici, assolutamente inaccettabili[34]) in effettiva polemica con quel «secolo folle» di cui viceversa egli condannava non la spinta progressiva, ben sua, ma i pericoli di sbandamento in quelli che la sua mentalità riformistica giudicava eccessi pericolosi e controproducenti, abbandoni o ad un estremismo fanaticamente razionalistico incapace di tener conto della natura dell’uomo e della realtà, o allo sfrenamento di istinti naturali privi della loro guida razionale.

Cosí la polemica con i «nuovi sofi» (come meglio vedremo parlando del Giorno) non avviene dall’esterno del moto illuministico, ma dall’interno di esso e in forza di una prospettiva che, ripeto, giudicava pericolosi per quello stesso moto gli «eccessi» voltairiani o rousseauiani (svuotamento di una intima religiosità naturale e cristiano-democratica o sfrenamento di totale liceità degli istinti dello stato di natura) e che oltretutto (e non si rischi di schematizzare una prospettiva piú complessa che confusa) ne condannava la diffusione di moda e di autorizzazione a un libero pensiero dilettantesco, alibi, a suo modo di vedere, di una condotta priva di moralità e di serietà: come è il caso dell’episodio del vegetariano che sale a quello della vergine cuccia nel Giorno, che è un attacco ben illuministico ad un sentimento «alla moda», alibi ipocrita di una feroce spietatezza disumana e classista.

Individuare correttamente la prospettiva illuministica e riformatrice del Parini (che fra l’altro implica la sua profonda persuasione che nulla si afferma senza una adeguata convinzione delle coscienze) non significa certo esaltarla a paradigma di posizioni giuste e privilegiate, magari attualizzate, accettandone la polemica con le posizioni che si pronunciavano nel suo tempo in direzione piú radicale e prerivoluzionaria. Significa invece capire la logica interna della sua stessa opera poetica e risolvere i complicati e spesso artificiosi problemi creatisi su di lui o attribuendogli una impostazione prerivoluzionaria o «presocialista» che non gli compete, o denunciandone le incertezze, la confusione ideologica, volta a volta invocate a inficiare la saldezza della sua stessa poesia o per presentarne il diagramma di sviluppo come involutivo o, magari viceversa, per curiosamente affermare che proprio quella presunta confusione e incertezza ideologica sarebbe stata necessaria alla libertà della sua poesia salvandola dal pericolo di risolversi in una poesia puramente ideologica e schematica.

Infatti – come vedremo, parlando dell’ultimo periodo della poesia pariniana – proprio tenendo ben presente la costante della sua prospettiva riformistica gradualistica, del suo alto moderatismo tutt’altro che semplicemente timido e pauroso, si possono meglio capire anche le forme della sua piú tarda evoluzione di posizioni e di poesia: senza celare il divario delle forme del suo impegno civile e morale e della loro direzione di poetica (ed anzi ben indicandole al di là di un semplice cambiamento di «maniera» artistica), ma insieme comprendendo e facendo comprendere che in quei mutamenti il Parini non perdeva di vista i suoi ideali sostanziali e il suo sostanziale metodo di riformatore cauto e sempre piú rilevante il fondo morale della sua volontà e della sua meta di riforma.

Di quella prospettiva si può denunciare il limite storico-personale rispetto ad altre prospettive del tempo illuministico e magari globalmente avvertire i limiti stessi di forza e di profondità della personalità pariniana (certo essa non è quella dell’Alfieri o poi, tanto meno, del Leopardi), ma non si può negarne la chiara coerenza, la pertinenza alla vasta raggiera della civiltà illuministica, la capacità di sorreggere coerentemente lo sviluppo e la consistenza della poetica e della poesia del Parini.

3. Idee estetiche e principii di poetica

Coerente alla sua visione storico-personale e al suo riformismo progressivo è la stessa concezione estetico-poetica del Parini che va colta non solo e non tanto in un preciso contributo di pensiero estetico, quanto in una direzione di riflessione attiva e di poetica, fortemente legata alla preoccupazione linguistica, ma organicamente coordinata alle centrali posizioni del poeta-uomo storico.

Le idee estetiche del Parini infatti piú che come contributo originale allo sviluppo della meditazione estetica settecentesca valgono come lucida e vigorosa riflessione del poeta sul problema dell’arte in rapporto inseparabile con la sua poetica programmatica ed operativa, alimentandola di una consapevolezza culturale e storica assai vasta e sicura (sono ben presenti al Parini i trattatisti rinascimentali e arcadici, oltreché le poetiche greco-latine e le nuove meditazioni estetiche sensistiche francesi, soprattutto del Du Bos e Batteux, cosí come egli poté risentire di spinte della poetica europea settecentesca fra Pope e Jean Baptiste Rousseau) e di quell’elemento di esperienza di artista in proprio, che dà alla sua riflessione estetica una singolare finezza di gusto e una ricca capacità di particolareggiamenti descrittivi della psicologia del poeta e del suo rapporto con la realtà umana e obbiettiva.

Il sostanziale nesso natura-ragione, centrale nella sua visione della vita e della civiltà, si traduce in un rinnovato valore e significato del binomio classicistico del dilettevole e dell’utile, che presiede, con organica forza propulsiva e nuova, alla sua poetica, quale viene espressa – fra documenti poetici e documenti discorsivi – nel famoso finale della Salubrità dell’aria o nel Discorso sopra la poesia del 1761.

È quest’ultimo il primo documento piú significativo della riflessione pariniana sulla poesia, anche se non ne mancavano antecedenti assai vivaci in quelle polemiche linguistiche piú giovanili su cui ritorneremo particolarmente nella presentazione della zona di formazione della poesia pariniana. Se in quelle polemiche si affacciava un sentimento vigoroso della lingua poetica, tanto migliore quanto piú schietta e capace di esprimere adeguatamente e senza «lascivie» e «artifiziose maniere» la «robustezza della ragione» la «bellezza de’ pensieri», nel Discorso sopra la poesia, aperto da un entusiastico e ben significativo elogio del nuovo «spirito filosofico» illuministico che ,«quasi Genio felice sorto a dominar la letteratura di questo secolo, scorre colla facella della verità accesa nelle mani, non pur l’Inghilterra, la Francia e l’Italia ma la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de’ pregiudizi autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe de’ nostri maggiori» e a cui si debbono tutti i progressi fatti in ogni campo del sapere e della civiltà, tanto piú consapevole, polemico, vigoroso si fa il commosso sentimento della poesia rinnovata, nella sua natura e funzione, da quello spirito filosofico e che «per una parte perduti i pomposi titoli che non solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le aveano, di “celeste”, di “divina” e di “maestra di tutte le cose”, ha nondimeno ricevuto dall’altra un merito meno elevato, a dir vero, ma piú solido e piú certo»: quello di aggiungere – nella vita dell’uomo – alla conquista di beni necessari un diletto che gli permette di «vivere, ma eziandio di vivere lietamente[35]», riconvertendo questa sua particolare utilità in una generale promozione di sensazioni e commozioni che per la loro particolare qualità possono accenderci di amore per la virtú e di orrore per il vizio, ma che piú generalmente «toccando» e «movendo» il cuore stimolano quel fermento di sentimenti di cui si alimenta la vita umana e civile bisognosa, per ogni sua affermazione duratura, di una pienezza che non le è data dal nudo ragionamento teorico o da schemi astratti di comportamento.

Il Parini – in una precisa battaglia generale e particolare contro concezioni di vita e di poesia che sarebbe lungo esplicitare in tutti i suoi concreti riferimenti settecenteschi: la poesia come qualcosa di trascendente e di superiore all’uomo che la crea, la poesia ornamentale e senza intima necessità, risolta «nel puro torno del pensiero, nell’eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore» – affermava cosí la dignità della poesia, la sua forza di particolare utilità e di intervento nella civiltà umana proprio in quanto radicalmente connessa con esigenze autentiche e «naturali» dell’uomo, con la sua necessità di felicità, fatta di concreto piacere e sol cosí capace di esprimerne (non illustrarne con «variopinti pennacchi» od esporne con nudo didascalismo) la tensione generale e particolare alla attuazione di un nuovo regnum hominis basato sul trionfo di ragione e virtú mai rescissi dalla densa garanzia della natura e del piacere, della sensibilità autentica e schietta.

A tale prospettiva poetica si lega perciò una necessaria analisi della morale letteraria quale si precisa nel Discorso sopra la carità del 1762, in cui la naturale tendenza dei letterati alla gloria (Parini non parla mai di astratti «doveri», ma di interessi ed istinti tradotti nel benefico commutatore di un superiore interesse comune, che qui chiama «carità», alla cui luce si scopre la inferiorità dell’interesse egoistico e «privativo») scarta i bassi compensi della vanità e dell’ambizione e si realizza in un’opera volta «alla utilità de’ suoi prossimi ossia alla repubblica in cui vive».

Tutto è legato saldamente, nella prospettiva sensistico-illuministica del Parini, nel suo edonismo-utilitarismo in favore del «bene pubblico» a cui d’altronde è indispensabile il concorso dei singoli non per astratto dovere, ma per meglio inteso superiore «interesse», e, anche quando egli si volgerà a una piú sistematica meditazione sulla poesia e sull’arte (nel trattato De’ principi generali e particolari delle belle lettere che raccoglie le lezioni tenute nella scuola di Brera fra 1773 e 1775), non perderà mai di vista né la destinazione e forza civile della letteratura, né la base edonistica-eudemonistica della sua prospettiva estetica sensistica, sempre cercando la molla della poesia nella dinamica della concreta e naturale sensibilità umana e sempre commisurandola agli «effetti» che essa produce sugli uomini «senzienti».

Cosí, anche se in questo trattato piú forte è la presenza del classicismo e delle sue istanze canoniche (unità, varietà, proporzione, ordine, chiarezza, perspicuitas, convenevolezza) rilanciate in quegli anni dal neoclassicismo (a cui il Parini veniva allora tanto piú avvicinandosi), queste stesse istanze (enunciate nei «principi generali» connessi a tutte le arti) vengono in realtà motivate e personalmente rinnovate (con densi rapporti con la sua poetica attiva e con la sua attuata poesia) da un saldo ricorso a moduli sensistici-illuministici di scavo nel tessuto della sensibilità e delle naturali tendenze umane al piacere, alla felicità, all’utilità fra loro coordinate e inseparabili.

Alla base infatti è sempre quella ricerca dell’utile e del dilettevole che la natura ha immesso nell’uomo e che lo porta ad evitare, con un interesse vivo, fatto di impressioni sensibili e stimolanti, che pongano l’animo «in continua azione e in continuo movimento», la stanchezza, la noia, lo «stato di pena».

E alla base di tutto è quella salda persuasione sensistica da cui è rinnovato il principio della imitazione degli oggetti reali naturalmente piacevoli nella ricerca delle immagini di tali oggetti, in modo che esse costituiscano una specie di nuova realtà altrettanto sensibile, regolata dall’incontro della varietà nell’unità (sí che «l’anima va girando come in un circolo, incontrando continua varietà di diletto»), dall’ordine, dalla chiarezza o perspicuitas, dalla raggiunta «facilità», dalla convenevolezza, dalla proporzione (donde nasce «una morbida eguaglianza di idee, d’affetti e d’espressione da cui l’anima viene di passo in passo guidata»).

Tutta l’opera del poeta (il poeta-uomo parla al lettore-uomo) deve convergere nell’espressione capace di «comunicare» ai lettori, utilizzando a questo scopo la piú raffinata scelta di mezzi tecnici e metrici (l’aiuto della piú scelta tradizione, l’efficacia delle piú sensibili immagini auditive e visive), ma senza mai disgiungerli dalla organica spinta centrale delle «cose» che egli vuole esprimere e comunicare. Mentre la forte esigenza ammaestrativa pariniana rivela la sua diversità dalle forme piú esteriori della poesia didascalica del tempo (con cui pure consuona, a piú alto livello, soprattutto nella comune base di acquisizione sensuosa e nobilitante della realtà rappresentata) in quanto, proprio per la radice tanto piú complessa e concreta del suo rapporto «utile-dilettevole», essa si postula come essenzialmente realizzabile e realizzata solo se poeticamente necessitata ed espressa e dunque, di nuovo, organicamente collegata con autentica ispirazione e fantastica capacità.

Ciò che si può verificare anche nella parte del trattato dedicata ad una rassegna della letteratura e della lingua italiana, in cui sempre centrale è l’affermazione dell’indissolubile legame di lingua, stile e «utili sentenze», di vivacità schietta delle sensazioni e impressioni ed affetti e della adeguatezza espressiva della lingua e dello stile. Alla luce di tali principi di classicismo rinnovato dalle componenti sensistiche-illuministiche, prendono valore sia la rinnovata condanna del Seicento per la sua «perversa maniera del pensare, del ragionare e dell’immaginare» da cui derivò organicamente il «pessimo gusto» barocco, sia la valorizzazione dell’Arcadia (e dei suoi precursori toscani che «serbarono tuttavia accese le faville del buongusto in mezzo alla comune depravazione di quel secolo») che si lega, ben significativamente, a quella dell’Accademia del Cimento perché questa

invitando gl’ingegni alle fisiche osservazioni, e l’altra alla elegante semplicità richiamandoli degli antichi esemplari greci, latini e italiani, fecero sí che l’Italia si riebbe dalla sua vertigine, tornò a gustare il vero e ad esprimerlo co’ suoi propri colori.[36]

Motivi che si possono ulteriormente verificare anche nei rari scritti critici del Parini. Come quello sulle poesie milanesi e toscane del Tanzi (del 1766) in cui al ritratto pariniano dell’amico, centrato sul fatto essenziale che «la passione, la quale non è incompatibile colla virtú, fu in lui quale può trovarsi in un cuore ben fatto», corrisponde esemplarmente la costatazione della sua consapevolezza della «vera poesia» che «dee penetrarci nel cuore, dee risvegliare i sentimenti, dee muovere gli affetti», e della vera natura di quella e della lingua poetica:

Egli sapeva che ogni popolo ha passioni; che queste le esprime nel suo linguaggio; che qualsivoglia linguaggio acquista una particolar forza ed energia in bocca dello appassionato; che la Poesia raccoglie questi segni energici della passione, li ordina ad un fine, li riunisce in un punto, e produce l’effetto che intende; e che conseguentemente ogni lingua, qual piú qual meno, è capace di buona Poesia.[37]

O come quello sulla Coltivazione dei monti del Lorenzi che minutamente insiste sui pericoli di una poesia didascalica che si dimentichi i suoi doveri di poesia e di linguaggio poetico[38], o come quello sulle Favole del Perego[39] lodate e trovate coerenti allo scopo ammaestrativo proprio perché scritte in verso e tanto piú perciò «impressive» se non altamente espressive (e dunque rivelanti una gradazione pur essenziale della efficacia poetica). Tanto piú alta è la poesia quando essa supera e invera a suo modo l’«impressività» in una espressività intera che, pur essendo carattere comune di tutte le belle arti, è sua particolare prerogativa (sicché essa sarà essenziale promotrice delle altre arti fino all’identificazione, in periodo neoclassico, di una funzione del poeta che fornisce immagini dense ed espressive al pittore e allo scultore). E fa sí che nella grande epoca di Pericle, descritta dal Parini come paradigma per il presente nella sua prolusione del ’69, l’entusiasmo poetico-civile che il grande politico greco esalta al suo popolo in termini estremamente significativi per il classicismo pariniano nella sua base sensistica e illuministica (significativo, ad esempio, è il rapporto sensistico fra la nuova spinta ad un’arte piú armonica e meno rozza di quella primitiva e un sentimento di mancanza di compensi alla «noia») venga soprattutto appoggiato alla potente iniziativa poetica di Omero: la cui lettura e diffusione fra i greci promosse un nuovo senso della bellezza, un nuovo «buongusto» essenziale alla realizzazione del nuovo bisogno di arti figurative piú armoniche, meno rozzamente imitative e funzionali.

D’altra parte proprio l’esempio di Omero vale non solo per le altre arti, ma anche per la poesia stessa, a cui oltre la conoscenza e l’esperienza viva della sensibilità umana e degli oggetti sensibili della realtà è necessaria la conoscenza e l’imitazione bella, cioè originale, dei grandi esemplari antichi (greci, latini e italiani, ma anche, nel cosmopolitismo illuministico, di altre epoche, civiltà[40]) che sono capaci di trasmettere, attraverso la loro perfezione espressiva e la durata della loro sintesi artistica, sentimenti alti e poetici, e indurre cosí ad una emulazione con loro e ad originali operazioni di «innesto» in cui il Parini si sentí personalmente impegnato e di cui egli indicò, come significativo esempio, nel trattato Dei principi delle belle lettere, quello dell’Aminta del Tasso e del suo modo di imitazione degli «eccellenti Greci»:

Nella quale imitazione il Tasso si contenne veramente da quell’uomo grande che egli era. Imperocché non ricopiò già egli, né troppo da vicino imitò, ma sul tronco delle greche bellezze, per cosí dire, innestò le sue proprie e quelle della sua lingua: di modo che ne venne un frutto nostrale di terzo sapore, talvolta anche piú dolce e saporito del primo ed originario.[41]

Mentre la stessa originale e «bella» imitazione dei classici e l’operazione di «innesto» non manca mai di esser sorretta, in direzione di un classicismo «moderno» e razional-naturale, da una chiara coscienza degli stessi possibili limiti dei grandi esemplari del passato, che si diversifica da certa fanatica esaltazione di quelli da parte di classicisti e neoclassici piú rigidi e pedanteschi, e si precisa in prese di posizioni ben significative anche per il nesso costante fra letteratura e cultura.

Come è quella dello scritto Sulla critica. A proposito di un’opinione intorno a Raffaello (frammento di una difesa del trattato del Ferguson, The art of drawing in perspective, uscito nel 1775), che, partendo da una decisa opposizione ad ogni forma di «abbominevole despotismo» contrario alla «perfezione delle cognizioni e delle facoltà umane» e dall’elogio della «sana critica», legata alla «naturale libertà dello spirito umano», attacca duramente la «superstizione» in campo artistico, la cieca ammirazione delle opere stesse degli «uomini grandi», le cui eventuali «macchie» debbono invece esser rivelate e indicate coraggiosamente: e «tanto piú»

in questo secolo, in cui si vede palpabilmente quali progressi abbia fatto fare agli ingegni il ricuperamento d’un poco di libertà, e quali vantaggi ne abbia ricavato la società umana rispettivamente a tutti gli oggetti che la interessano; e quanto maggior bene se ne debba razionalmente sperar per l’avvenire.[42]

Cosí la poetica pariniana, lungi dal risolversi in una poetica duramente utilitaristica e pedagogica o viceversa in una poetica di puro diletto e di raffinata ornamentazione (come spesso fu delle poetiche piú strettamente rococò[43]) o in una prospettiva di classicismo imitatorio e archeologico, si presentò nei suoi centri motori (e pur con accentuazioni piú combattive-moralcivili o piú fortemente edonistiche entro uno sviluppo che si appoggia allo sviluppo stesso della personalità pariniana entro il suo tempo e che indica anche l’impegno arduo della sua ricerca unitaria) come una poetica organica di un nuovo utile dulci e magari poi del «vero», del «buono» e del «bello» – come profonda esigenza di una personalità e di una civiltà che mirano a costituirsi sane, feconde, armoniche nel circolo progressivo e graduato della sensibilità e della ragione, del piacere e della virtú, contribuendo cosí, proprio per la loro concretezza e razionalità, a rompere le barriere dell’egoismo, della prepotenza, della violenza sopraffattrice, dell’ignoranza e della perversione degli istinti naturali, a riscaldare, alimentare, e insieme illuminare la vita presente ricongiungendola insieme, in un sentimento concreto della storia umana, attraverso i valori ora trionfanti, ma insiti nella natura dell’uomo, e già vissuti in altre epoche pur vicine alla natura e alla ragione.

Da quanto si è detto si può capire insieme come la poetica pariniana, che pur parte dall’esperienza arcadica e ne riprende con tanto maggiore vigore principi essenziali, non possa certo ridursi (secondo la tesi del Croce e dei crociani[44]) nei confini dell’Arcadia e si profili, nel suo svolgersi fino al vero e proprio neoclassicismo, come espressione organica delle esigenze dell’epoca illuministica sull’appoggio essenziale della costante classicistica e di quella sensistica.

4. La formazione poetica dalle «Poesie di Ripano Eupilino» alle prime «Odi»

La prima formazione poetica pariniana si svolge entro le condizioni della poetica arcadica nelle sue istanze di ripresa del «buon gusto» cinquecentesco, attuata anzitutto in una forte preoccupazione linguistico-stilistica appoggiata appunto ad esempi quattro-cinquecenteschi e a una diretta utilizzazione dei classici latini e greci.

È ciò che si può verificare nella lettura dei componimenti raccolti nel volumetto Alcune poesie di Ripano Eupilino edito nel 1752 e in seguito alla cui pubblicazione il Parini fu accolto in quella Accademia dei Trasformati di origine cinquecentesca, restaurata nel 1743 dal conte Giuseppe Maria Imbonati, che raccoglieva alcuni dei letterati ed uomini di cultura di Milano piú orientati verso un rilancio di istanze arcadiche su di un nuovo piano di maggiore rapporto fra letteratura e cultura e con una maggiore fedeltà all’eredità rinascimentale e alla lezione dei classici antichi.

A tali esigenze il giovanile volumetto del Parini corrispondeva, entro una notevole varietà di forme metriche e di «generi» poetici, anzitutto con un notevole sforzo di maggiore precisione classicistica rispetto alle offerte arcadiche, anche quando riprendeva piú da vicino motivi e moduli del sonettismo pastorale dell’Arcadia[45].

Come può esemplificarsi nella lettura di un sonetto, il XVI (nella sezione Poesie serie), già cosí nitido, ordinato, attento nel suo tono alla precisione media e sicura delle parole e alla loro levitazione pacata in sensi chiari e pur suggestivi specie nella centrale evocazione dei sogni che nascono nella dolce quiete:

– Questo biondo covon di bica or tolto,

penda innanzi al tu’ altar, santa Vacuna:

poiché felicemente oggi raccolto

dal campo abbiam le spighe ad una ad una.

Ecco che noi giacciam col sen disciolto,

or che s’alza la notte umida e bruna:

tu ’l sudore ne tergi, e intorno al volto

colla dolce quiete i sogni aduna. –

Tai cose i mietitor, da le fatiche

del dí tornati, poiché ’l sol cadea,

dicevano sdraiati in su le biche:

e intanto il bue, che ’l dí trainato avea,

in disparte pascevasi di spiche,

e lo stanco drappel non v’attendea.[46]

E cosí nella sezione di poesie imitate o tradotte dai classici (Catullo, Anacreonte, Mosco, Orazio) si può ben misurare l’esercizio e il ricavo della precisa lezione dei classici in questa prevalente tensione del noviziato pariniano a una propria formazione classicistica e umanistico-rinascimentale anzitutto in direzione linguistico-stilistica, con un piú netto bisogno di precisione e sicura correttezza di fronte alla relativa approssimatezza delle imitazioni e traduzioni delle precedenti esperienze arcadiche. Come si può vedere, ad esempio nella imitazione della celebre XIII del III libro delle Odi di Orazio, fondamentale modello anche per il Parini della perfezione stilistica classica:

O del vetro piú chiaro ameno fonte,

degno di dolce vin, cinto di fiori,

domane avrai un caprettin, cui fuori

spuntan le prime corna in su la fronte.

Indarno ei mostra le sue voglie pronte

or a l’aspre tenzoni or agli amori,

poiché avverrà che i gelidi liquori

del suo sangue vermiglio esso t’impronte.

Te l’ore atroci dell’ardente Cane

non san toccar; tu doni a’ tauri, lassi

d’arare, amabil fresco e al vago armento.

Però tra l’altre andrai chiare fontane;

ch’io l’elce canterò ch’ombreggia i sassi

cavi, onde scorre il tuo loquace argento.[47]

D’altra parte, ricordando come il noviziato pariniano si appoggia anche a quelle istanze fortemente morali e realistiche che erano tipiche del Maggi (e in diversi modi anche del Dotti) nella zona lombarda già prima dell’inizio della vera e propria Arcadia, in questa produzione poetica, che sperimenta temi e linguaggi in una larga disponibilità e persino in una dichiarata volontà del giovane scrittore di offrire al pubblico una varietà di «maniere di comporre» che gli permetta di usufruire delle preferenze di quello per una sua scelta piú chiara

(io ho voluto scêrre, de’ miei poetici lavori, vari di argomenti e di varie spezie: acciocché, veggendoli, il pubblico mi sappia poi dire a qual maniera di comporre io debba appigliarmi),

si fa pur luce una certa spinta morale e un incipiente gusto di realtà che vengono preparando, con tanto minore chiarezza e sicurezza, le basi piú generali del mondo poetico pariniano, acceso poi e chiarito dal fondamentale incontro con i piú precisi ideali illuministici e con le istanze poetiche del classicismo sensistico. In questa doppia direzione van ricordati, come espressione di una iniziale e piú incerta battaglia contro le forme degradanti della serietà poetica, i componimenti che satireggiano la moda dei componimenti convenzionali per occasioni non sentite[48] e, in contrasto, le dichiarazioni ingenue, ma sincere, di fedeltà alla dignità della poesia, alla purezza delle Muse, alla schiettezza dell’«estro» e «furore» poetico[49]. Ed è chiaro che in questa direzione (con una ricchezza di modelli e stimoli letterari che vanno dal Magnifico della Nencia, dal Burchiello, dal Pulci, dal Pistoia, dal Berni ai piú vicini Fagiuoli e Baldovini) hanno una loro particolare funzione di primo attrito con la realtà e di espressione di esigenze morali – entro chiari smussamenti e svisamenti verso il «piacevole» e il previdente divertimento linguistico – quel folto gruppo di rime appunto intitolate «piacevoli» che, nel «bernismo» arcadico e postarcadico, implicano un piú spiccato accento personale e un piú forte sapore di realtà soprattutto nell’esasperato rilievo satirico, comico-mimico, caricaturale e deformante di quanto viene aggredito e satireggiato.

Basti in proposito solo, come esempio piú compatto (seppur non privo di cadute e zeppe), di fronte a movimenti e tratteggi efficaci, ma spesso piú sporadici entro tessuti piú vicini ai modelli e ai modi della convenzione del bernismo (che nel Settecento corre lungamente con una certa ambiguità fra possibilità di realismo e piú frequente maniera e convenzione linguaiola e noiosamente scherzevole), riportare questo brano dal componimento LXXV che descrive un ballo di pitocchi in una soffitta squallida e ingombra di oggetti sporchi e mobili cadenti:

I sonatori a lutto

suonavan una razza di strumenti

che ti metteva i brividi ne’ denti.

Ambidue gli occhi spenti

aveva l’uno, e l’altro era storpiato,

e un, che come un ladro era stracciato,

ci vedea sol da un lato.

Le sonate ch’avean in mente fitte,

eran di quelle che facea Davitte.

Stavano ritte ritte

in sulle panche che parean steccate,

certe brutte fanciulle indiavolate.

Eran tutte malate:

chi aveva ’l cacasangue e chi la tosse,

chi non cacava e chi avea le mosse;

e la meno che fosse

avea la rogna, avea il mal franzese,

e ’l benefizio non avea del mese.

Un scopator di chiese,

un beccamorto, un zaffo, un ciabattino,

un gabelliere, un lanzo ed un facchino

ed anche un chierichino

di que’ che in chiesa servono alle monache,

un oste, un cuoco e, per finir le cronache,

due frati senza tonache,

con certi visi di bertucce o monne

facean conversazion con quelle donne,

a cui putian le gonne

d’un odor d’ogni sorta di malanni...[50]

Mentre, ancora ritornando alle poesie «serie», dovrà pur riconoscersi nell’apprendista poeta una capacità, assai profilata personalmente, di animare la tematica pastorale arcadica con un singolare ricorso (pur sottilmente mediato da esempi classici particolarmente oraziani) a elementi fantastico-magici che, con varia efficacia suggestiva, rompono la prospettiva idillica e la scena placida e rassicurante con tratti piú energici e sinistri (come nel sonetto XXX in cui il segno premonitore degli effetti della maledizione di una strega sul gregge innocente del poeta-pastore si configura assai efficacemente nel livido bagliore di una luna malefica e demoniaca: «e allor la luna sparse / raggio di sangue in vêr la mia capanna»[51]) o vengono usufruiti per ricomporre pace e letizia pastorale-amorosa come su di un piano turbato e rasserenato assai insolito e poeticamente promettente nella direzione di impasti di toni e di sensibilità piú densi e complessi: il caso del sonetto XLI che affida al sonno, con le sue risorse di sogni tormentosi e angosciosi, la sollecitazione della donna amata ed ostile alla pietà per il proprio innamorato:

O Sonno placido che, con liev’orme,

vai per le tenebre movendo l’ali,

e intorno ai miseri lassi mortali

giri coll’agili tue varie forme;

là dove Fillide secura dorme

stesa su candidi molli guanciali

vanne, e un’imagine carca di mali

in mente pignile trista e deforme.

Tanto a me simili quell’ombre inventa

e al color pallido che in me si spande,

ch’ella, destandosi, pietà ne senta.

Se tu concedimi favor sí grande

con man vo’ porgerti tacita e lenta

due di papaveri fresche ghirlande.[52]

E tuttavia centralmente va ribadito il preminente interesse di formazione stilistica e di esercizio di linguaggio (specie nella loro notevole robustezza e chiarezza sintattica[53]) di queste prove del noviziato poetico pariniano, e sarebbe errato caricarle eccessivamente di significati e di valore e non avvertire poi lo scatto di impegno e di novità piú autentica, anche rispetto alle poetiche piú propriamente pertinenti alla vera zona arcadica, che è dato cogliere invece nelle prime odi e, prima o intorno a queste, in altri componimenti in versi o nel Dialogo sopra la nobiltà, o negli altri scritti in prosa fra polemiche linguistiche e discorsi sulla poesia e sulle sue nuove funzioni.

Dopo le Poesie di Ripano Eupilino, fra l’assiduo scambio di idee sulla letteratura e sulla lingua (ma anche sulla cultura che si trasforma dalle condizioni dell’epoca arcadico-razionalistica verso le piú chiare forme dell’illuminismo) con letterati e uomini di cultura attivi nell’Accademia dei Trasformati nel suo periodo piú fiorente (prima che si staccassero i giovani che, come i fratelli Verri e Cesare Beccaria, sentiranno poi il bisogno di una società culturale piú aggressiva e antitradizionale) e la diretta conoscenza delle nuove idee dell’illuminismo anglo-francese e della filosofia ed estetica del sensismo, la personalità del Parini si forma e si precisa in una prospettiva di poetica e di cultura tanto piú avanzata e impegnata rispetto a quella esercitata nella prima raccolta di versi.

È il periodo dell’essenziale presa di coscienza da parte del Parini della funzione civile e morale della poesia, dei propri densi rapporti con una società precisa, quella lombarda, e con la generale civiltà illuministica: presa di coscienza che anima tutta la sua produzione di questi anni con una nuova e fervida volontà di intervento polemico, chiarificatore, promotore di nuove condizioni di vita, di costume letterario, di poetica e di poesia.

In questi anni decisivi per la maturazione dell’uomo e del letterato impegnato si possono considerare anzitutto due importanti scritti polemici, il primo del ’56, il secondo del ’60, che ben contribuiscono sia a chiarire la crescente disposizione del Parini a intervenire con vigore e chiarezza polemica (ancor piú precisa nel secondo scritto) nella situazione culturale e letteraria lombarda (e attraverso questa – a cui egli anzitutto guarda con quel gusto di concretezza che gli è proprio – alla situazione nazionale e a problemi di ordine generale), sia a mostrare i nessi che il letterato nuovo fa valere fra lingua (primo e fondamentale oggetto della sua polemica, strumento essenziale della funzione dello scrittore e di una piú larga espressività sociale), letteratura, cultura, civiltà, fra letterati e popolo, in una prospettiva democratica e riformatrice che non esclude l’aristocraticità del fatto creativo né ripropone il problema dell’isolamento preventivo degli artisti, ma postula un’educazione che con nuovi metodi pedagogici innalzi – senza alterarne le esigenze di autenticità, le vive riserve di forza schietta – le capacità di gusto e di cultura del popolo.

La prima polemica, che vede associato il Parini al piú anziano amico e accademico dei Trasformati, Domenico Soresi, si rivolge contro il padre Alessandro Bandiera, ex gesuita passato nell’Ordine dei Servi di Maria, toscano, difensore di un purismo linguistico ad oltranza e di una rigida educazione classicistica consolidati sia nella sua opera di traduttore di Cicerone e di Cornelio Nepote e di autore del Gerotricamerone (imitazione del Boccaccio quanto a lingua, ma svolto in una singolare tematica sacra), sia nel libro, del ’55, I pregiudizi delle umane lettere per argomenti apertissimi dimostrati specialmente a buon indirizzo di chi le insegna.

Contro questo libro, ma insieme contro tutta l’opera e la prospettiva del Bandiera, si rivolse il Parini con la Lettera intorno al libro intitolato «I pregiudizi delle umane lettere» indirizzata al Soresi (pubblicata poi in un unico volumetto con la lettera di risposta del Soresi), demolendo acutamente – pur con il riconoscimento delle buone intenzioni – sia la presunzione del Bandiera (attaccata come grave difetto di «uomo savio»), sia la stortura della sua pretesa di riportare ogni stile ad un unico paradigma linguistico – quello toscano boccaccesco – e alla fine ad una unica rigida direzione stilistica, come egli aveva fatto con un curioso rifacimento di passi delle prediche del Segneri. Il Parini esamina questo rifacimento dimostrando l’errore generale di un presunto miglioramento alterante e condannando la tendenza a scriver «geometricamente e con piú arte ch’alla natura delle lettere non si confà», quella a far uso di circonlocuzioni o perifrasi dove assai meglio è «esplicare il proprio pensiero con egual nobiltà e chiarezza, servendosi della propria e natural voce», quella a ridurre lo stesso modello boccaccesco ad un unico «noioso e sempre eguale tintinno», ad un’unica cadenza dei periodi, quella soprattutto dell’affettazione pedantesca a cui il Parini contrappone le ragioni linguistico-letterarie, ma chiaramente sottese da un’esigenza culturale ed etico-pedagogica generale (si noti almeno la chiara battaglia contro la vanità letteraria e accademica) della «limpidezza-bellezza», della organica semplicità che può avvalersi degli ornamenti e del colorito aggettivale «a crescer, non a soffocar la bellezza», non a «soprafare e manco poi contrastare alla bellezza del nostro ragionamento», rifiutando energicamente ogni dissociazione di forma e contenuto che degrada lo stesso gusto della lingua alla ricerca di «un ben tornito periodo che per tortuose vie si ravvolga in se stesso a guisa d’un labirinto», e di «uno zibaldoncello di rancide voci e di affettate maniere di dire»[54].

Ma ben piú importanti sono le posizioni espresse nella seconda polemica (articolata in tre scritti successivi, culturalmente tanto piú valida, asciutta, coerente) contro il padre Branda che era stato professore del Parini nelle scuole Arcimbolde e aveva scritto, nel ’59, un dialogo che esaltava enfaticamente la lingua toscana contro il dialetto milanese e la stessa città di Milano, replicando poi alle prime critiche fattegli a Milano con un secondo dialogo che precisava il suo attacco contro il dialetto e contro le stesse generali qualità dei ceti inferiori del popolo milanese. È in questi nuovi scritti che la polemica si fa piú vigorosa ed investe piú chiaramente – alla luce di un netto riferimento ai tempi nuovi dell’illuminismo e del governo riformatore austriaco-lombardo, «a questi tempi e in questa luce della verità»[55] – i problemi generali di una civiltà letteraria e non solo letteraria appassionatamente difesa nella sicura coscienza della sua tradizione migliore, del suo vigore identificato anzitutto nella vitalità popolare e delle sue nuove prospettive di riforma e di apertura nella realizzazione di ideali razionalnaturali, nonché personalmente nella consapevolezza della sua prospettiva combattiva, del suo coraggio della verità, e della stessa sua faticosa conquista della cultura e della letteratura a causa delle sue difficili condizioni economiche, della povertà dei genitori, della sua estrazione popolare[56] che rinsaldava i suoi vivi legami con quei ceti popolari piú sicuri detentori del dialetto meneghino e delle virtú sobrie, schiette e cordiali della «nazione» milanese, da cui deriva lo stesso carattere di quell’amato dialetto:

Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il piú soave legame della società umana. Il qual pregio, quanto si accosta piú alla purità del Sommo Essere, tanto piú ne dee stimolare a serbarlo costantemente, quale ce lo hanno lasciato i nostri maggiori, senza che veruna cosa basti a corromperlo e farlo degenerar nel contrario.

Questa medesima schiettezza e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’ nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano; certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni proprie e naturali, o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo l’immaginazione.[57]

E la viva difesa del dialetto, ben suscettibile di essere adoperato da letterati colti per esprimere anche sentimenti e temi alti (pur nella ammessa superiorità del toscano per la sua tradizione letteraria e la sua diffusione nazionale), si articola in un’energica difesa della priorità delle «cose» rispetto alle parole isolate dalla loro funzione espressiva[58] e della tradizione di poesia dialettale lombarda dal Maggi in poi, a cui il Parini riconosce la capacità di aver indirizzato la poesia ad un «sí lodevole e vantaggioso fine, quanto si è quello di ammaestrare e di correggere i costumi della loro patria»[59]. Tutte queste direzioni di polemica e di affermazione convergono appunto in una vigorosa prospettiva (che di tanto supera quella implicita nelle Poesie di Ripano Eupilino) letteraria e insieme etica e civile, la cui punta attiva e pragmatica – sulla base di una nozione del letterato come uomo della verità, della coscienza in funzione del bene pubblico – è costituita dalla volontà di una poesia che – con la forza di una lingua colta, ma capace di attingere alle risorse di energia e di autenticità della lingua popolare e dialettale esercitate dallo stesso Parini in poesia[60] – collabori allo sviluppo di una società piú giusta, «spregiudicata», illuminata ed attiva, e del suo costume ispirato agli ideali di natura e ragione, all’ideale della reciproca «illuminazione»[61] e del rispetto di ogni uomo in quanto tale, in una netta accettazione di una sostanziale eguaglianza di ispirazione illuministica convalidata dalla stessa religione nella piú profonda vocazione fraterna del cristianesimo[62]. Ma la sostanziale, persuasa adesione del Parini a motivi di fondo dell’illuminismo, che venivano cosí provvidenzialmente a rispondere alla sua nativa serietà morale, al suo bisogno di un esercizio letterario giustificato da una sua funzione di verità e di civiltà, si può anche meglio cogliere in quei componimenti poetici, recitati nell’Accademia dei Trasformati, in cui i temi piú accademici e generici, mentre vengono sviluppati in un esercizio di perfezionamento stilistico-linguistico originalmente coerente alle esigenze di rinnovamento classicistico di quell’Accademia e alle esigenze maturate dal Parini sulla base del suo noviziato arcadico-classicistico, vengono da lui svolti in chiara direzione illuministica, con un senso fervido dei nuovi valori che non si può ridurre a semplice curiosità per temi alla moda, a pretesto provvisorio di un’esercitazione di puro letterato, indifferente al soggetto trattato.

L’Accademia propone il tema «la guerra», che poteva essere svolto in forme di pindarico elogio dell’eroismo o di arcadica evasione in un beato rifugio idillico e pastorale. E invece il Parini – pur nella cornice di un elogio alle vittoriose armi austriache[63] attive per la «difesa» e la «comun salute» dei popoli retti da Maria Teresa («la donna / dell’Istro..., a cui le sagge voglie / solo il ciel detta al comun ben rivolte») – lo svolge (nell’epistola in versi Sopra la guerra, del 1758) in una ricca e vibrante epitome di motivi antimilitaristici, tutti giustificati in netta chiave illuministica: orrore umanitario per la strage di uomini innocenti, sdegno per la violenza e per le imprese di colonizzazione armata, rovente condanna della «ragion di stato» che induce i re a tradire la loro funzione di difensori della sicurezza collettiva e a spingere a certa morte

i miseri soggetti, i quai lo scettro

dato avean loro per salvar sé stessi

dall’esterno furore; e aver secure

all’ombra d’un signor vita e ricchezze;[64]

e replicata condanna dell’empia giustificazione delle guerre in nome della volontà divina, e delle anticristiane guerre di religione:

Empi! Che Dio

credêr sí ingiusto che a pugnar l’un frate

spinga coll’altro; e del lor sangue ei goda [...]

Che piú? cotanto osò l’orribil Furia

che di religion prese le spoglie,

e posto il ferro in mano all’uom, gli disse:

– Uccidi pur; ché cosí il ciel comanda. –[65]

E se l’Accademia dettava come temi «il corpo umano» o «il fuoco», il Parini li svolgeva in un sonetto che, nella nascita dell’uomo, realisticamente descritta, assicura la comune origine, l’uguaglianza di tutti i mortali («Cosí nasce il villano, il Papa, il re»), e nel frammento L’auto da fé che dolorosamente dipinge la scena degli eretici condotti al supplizio seguendo

l’imagine di quel che per salvarne

morí sul legno,[66]

preceduti dai frati domenicani, «i figli di colui / a cui il ciel diè la spada, e disse: – Uccidi / gli empi fratelli tuoi cui il ver s’asconde –».

Mentre le nuove teorie egualitarie, cosí congeniali al suo fondamentale bisogno di giustizia, al suo alto senso della comune dignità di tutti gli uomini, vengono riassunte dal giovane Parini in un vigoroso assalto ai privilegi e alla boria della classe nobiliare, in quel Dialogo sopra la nobiltà[67], del ’57, che con violenza e con punte di crudo realismo[68] ribadisce la comune fine degli uomini

(Questo è un luogo [la tomba] ove tutti riescono pari; e coloro che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassú, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a noi altra canaglia: non ècci altra differenza se non che, chi piú grasso ci giugne, cosí anco piú vermi sel mangiano.)[69]

e la loro comune origine:

Nobile:

Perché io son nobile, dove tu se’ plebeo.

Poeta:

E che diacine d’animale è egli mai contesto nobile, che noi siamo obbligati a rispettarlo? È egli uno elefante o una balena, che altri debba cedergli cosí grande spazio da occupare? O vuol egli forse dire un uomo pieno di virtú, e cosí benefico al genere umano, sicché l’altr’uomo sia forzato a portargli riverenza?

Nobile:

Oh! tu se’ pure il grande scioccone. Uomo Nobile non vuol dire niente di ciò; né per questo è ch’ei merita d’essere rispettato.

Poeta:

E perché adunque?

Nobile:

Perché egli ha avuto una nascita diversa dalla tua.

Poeta:

Oh poffare! voi mi fareste strabiliare. Affé, che voi mi pigliaste ora per un bambolo da contargli le fole della fata e dell’orco. Non sono io forse stato generato e partorito alla stessa stessissima foggia che il foste voi? E che, vi moltiplicate voi forse per mezzo delle stampe, voi altre nobili?

Nobile:

Noi nasciamo come se’ nato tu medesimo, dicoti; ma il sangue che in noi è provenuto da’ nostri maggiori è tutt’altra cosa che il tuo.

Poeta:

Dàlle! e voi seguite pure a infilzarmi maraviglie. Forseché il vostro sangue non è, cosí come il nostro, fluido e vermiglio? È egli fatto alla foggia di quello degli Dei d’Omero?

Nobile:

Egli è anzi fluidissimo e vermiglissimo; ma tu ben sai che possa il nostro sangue sopra gli animi nostri.

Poeta:

Io non so nulla, io. Di grazia, che credete però voi che il vostro sangue possa sopra gli animi de’ nobili?

Nobile:

Esso ci può piú che non credi: esso rende i nostri spiriti svegliati, gentili e virtuosi; laddove il vostro li rende ottusi, zotici e viziosi.

Poeta:

E perché ciò?

Nobile:

Perché esso è disceso purissimo per insino a noi per li purissimi canali de’ nostri antenati.

Poeta:

Se la cosa è come a voi pare, voi sarete adunque, voi altri Nobili, tutti quanti forniti d’animo svegliato, gentile e virtuoso.

Nobile:

Sí certamente.

Poeta:

Onde vien egli però che, quando io era colassú tra’ viventi, a me pareva che una cosí gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora, per qualche impensato avvenimento, si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que’ purissimi canali de’ vostri antenati? Ed onde viene ancora che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate, valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?

Nobile:

Io non ti saprei ben dire onde ciò procedesse; ma egli è pur certo che noi altri nobili dobbiamo essere rispettati da voi, se non per altro, almeno per l’antichità della nostra prosapia.

Poeta:

Deh, Signore, ditemi per vita vostra, quanti secoli prima della creazione cominciò egli mai la vostra prosapia?

Nobile:

Ah ah, tu mi fai ridere: pretenderesti tu dunque, minchione, che ci avesse delle famiglie prima che nulla ci fosse?

Poeta:

Or bene, di che tempo credete voi che cominciasse la vostra famiglia?

Nobile:

Dal tempo di Carlo Magno, cicala.

Poeta:

Olà tu, fammi dunque di cappello tu, scòstati da me tu.

Nobile:

Insolente! che linguaggio tieni tu ora con me? tu mi faresti po’ poi scappare la pazienza.

Poeta:

Olà, scòstati ti dico io.

Nobile:

E perché?

Poeta:

Perché la mia famiglia è di gran lunga la piú antica della tua.

Nobile:

Taci là, buffone; e da chi credi tu d’esser disceso?

Poeta:

Dalle costole di Adamo, vi dico io.[70]

Mentre il dialogo porta all’estremo la spietata analisi della prevalente formazione piratesca dell’aristocrazia, i cui capostipiti furono tutti «usurpatori», sgherri, masnadieri, violatori, «sicari», proprio secondo il vanto che il nobile ne fa[71]. Cosí grida al nobile l’altro interlocutore del dialogo, che è, si badi bene, non un qualsiasi cittadino o filosofo, ma un poeta di origine plebea, perché il Parini affidava appunto ad un poeta nuovo (e uomo nuovo in una situazione di impegno concreto e personale) la missione di illuminare i suoi concittadini, di comunicare loro coraggiosamente la verità con la sua forza di durata anche se non eterna[72], di combattere le storture morali e sociali: una missione coerente al rinnovamento generale della cultura provocato da quel nuovo «spirito filosofico», che egli nel Discorso sopra la poesia, del ’61, già da noi ricordato e citato, vede investire appunto anche il campo della poesia, conferendo a questa un compito nuovo di serietà e di utilità civile, senza con ciò farle perdere il suo carattere peculiare di superiore diletto, di incanto fantastico.

E si noti bene: mentre il Parini non nega che nell’antica nobiltà vi siano stati anche uomini degni (e perciò stesso modesti e dimenticati dai loro frivoli discendenti) e che la nobiltà possa avere qualche vantaggio se congiunta con la ricchezza e con la virtú (e soprattutto con questa, sí che essa è come una patina di antiche medaglie che «non rende intrinsecamente piú prezioso il metallo onde sono composte né migliore il disegno onde sono improntate, nondimeno per una opinione di chi se ne diletta, riescono piú care e pregiate»), alla fine del dialogo il nobile è convertito alla verità espostagli dal poeta, confermando cosí la forza di fiducia nell’educazione che il riformatore Parini metteva alla base della trasformazione della società insieme alle leggi coerenti del potere politico. D’altra parte questa stessa fiducia nell’educazione della stessa nobiltà e l’accenno a quei rari capostipiti (o almeno antenati) che impiegarono potenza e ricchezza per il bene pubblico fanno capire come sarebbe errato identificare l’aggressività egualitaria di questo scritto con una prospettiva radicalmente eversiva dell’ordine sociale e costruire cosí una linea dello sviluppo pariniano che da una sicura volontà rivoluzionaria passerebbe poi ad una accettazione, stanca e delusa, dell’ordine esistente.

L’orgoglio illuministico inequivoco sorregge un’adesione intera a quel movimento razionalista e sperimentale nel suo metodo, nel suo fine di progresso civile e umanitario, nel suo ideale di civitas razionalistica e naturalistica, nella sua poetica di efficacia sensistico-edonistica in funzione di civilizzazione. La poesia deve «toccare e movere», non esaurirsi in bellezza e armonia, deve essere alle sue radici stesse educatrice e suscitatrice di affetti e ragionevole guida di questi e per far ciò deve dilettare, procurare un «vero, reale e fisico diletto... nel cuore dell’uomo».

Figlia della natura, la poesia è, come quella, universale nel suo carattere fondamentale di traduzione sensibile ed efficace di passioni:

La benefica natura ha dato all’uomo certi segni, sempre costanti ed uniformi in tutti i popoli del mondo, onde poter esprimere al di fuori il dolore e il piacere.

E quindi il poeta deve avere dalla natura una particolare disposizione di impressionabilità che permetta a lui la cattura e la traduzione poetica di oggetti sensibili:

Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento, che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e delicata le impressioni degli oggetti esteriori.

Sarà cosí possibile dilettare e giovare secondo il precetto oraziano unificato (aut prodesse volunt aut delectare poetae): giovare dilettando ed eccitando gli animi ad azioni «virtuose» e benefiche:

Egli è certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere e farci prendere abborrimento al vizio, dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtú, imitandone la beltà.[73]

Chiarissime posizioni non piú arcadiche, e rinforzate, nei riguardi delle stesse punte piú preilluministiche e mitico-didascaliche, ad esempio, del Gravina, dal loro piú preciso riferimento illuministico-sensistico e dalla poetica precisa che, specialmente dalla Salubrità dell’aria (1759) in poi, ne ricava il Parini:

Va per negletta via

ognor l’util cercando

la calda fantasia

che sol felice è quando

l’utile unir può al vanto

di lusinghevol canto.[74]

Dove la «negletta via» è un chiaro accenno polemico all’indirizzo prevalente della poesia precedente (nonché della incertezza contemporanea fra nudo didascalismo e ozioso ornamentalismo poetico) e implica insieme un movimento di orgoglio innovatore simile a quello indicato all’inizio del Discorso sulla poesia. Mentre in sede di espressione artistica tale poetica raccoglie la spinta pariniana già in atto verso un classicismo nuovo che supera – pur non perdendone il valore «di lusinghevol canto» – il piú aperto sfocio di tanta poesia arcadica nel predominio della dolcezza melodica.

Già nella Vita rustica, del ’57-58, e nel suo ritmo avvivato da un moto piú rapido e da un piglio piú sicuro, l’impeto della quarta strofa porta a risultato poetico un nuovo senso di «song moralised» alla Pope e un’eco oraziana di decisione virile, mentre l’aggettivazione incisiva e sensibile accompagna e quasi supera la linea del canto:

Me non nato a percotere

le dure illustri porte

nudo accorrà, ma libero

il regno della morte.

No, ricchezza né onore

con frode o con viltà

il secol venditore

mercar non mi vedrà.[75]

E nel finale lo sfocio di canto è ormai in intimo accordo con quel ritmo interno di abitudine piú intimamente goduta e diffusa – amore di natura e di moralità –:

Tale a me pur concedasi

chiuder, campi beati,

nel vostro almo ricovero

i giorni fortunati.

Ah quella è vera fama

d’uom che lasciar può qui

lunga ancor di sé brama

dopo l’ultimo dí![76]

Come nella figurina del «villan sollecito» si fa luce non solo un nuovo interesse illuministico e umanitario, che osa esaltare come degno di immortalità poetica un contadino attivo e intelligente applicatore di nuovi procedimenti agricoli, ma una nuova capacità espressiva di tipo classicistico-sensistico che convenientemente rileva e definisce atti e sentimenti vitali nella loro sensuosità, nobilitati insieme dalla perspicuitas classicistica e dal lucido suono melodico e ritmico:

E te villan sollecito

che per nov’orme il tralcio

saprai guidar frenandolo

col pieghevole salcio:

e te che steril parte

del tuo terren, di piú

render farai, con arte

che ignota al padre fu:

te co’ miei carmi a i posteri

farò passar felice:

di te parlar piú secoli

s’udirà la pendice.

Sotto le meste piante

vedransi a riverir

le quete ossa compiante

i posteri venir.[77]

E nella Vita campestre, probabilmente precedente al 1758, nelle terzine di derivazione letteraria cinquecentesca (la scuola dell’Ariosto delle satire e dei vari capitolisti e berneschi anche fuori dell’intento giocoso), l’ideale arcadico si rinnova come ravvivato e trasformato dal nuovo mito rousseauiano superando la semplice «pastorelleria» piú convenzionale in un ideale di vita sobria, saggia e naturale nella figura del buon signore che si occupa direttamente del proprio modesto patrimonio terriero e che, con «i figli e la consorte e l’amato cultor», non conosce la noia e i vizi

ché all’alma ingenua, all’incorrotta mente,

la spontanea natura offre se stessa

d’infiniti piacer viva sorgente.[78]

Mentre la lunga descrizione iniziale mostra un gusto di colori larghi e distesi, sobri, di impressioni acutamente visive che si ricollega ormai ad una nuova poetica in formazione, lontana dalla prevalente sommarietà di scenari arcadici e piú vicina semmai a quel descrittivismo dei versi sciolti in cui lo stesso Frugoni tocca una maggiore efficacia proprio in quanto esce dai termini piú consueti del formulario paesistico arcadico, ma tanto superiore anche a simili vicinanze per la sua capacità di esprimere un sincero sentimento nuovo della sanità naturale e delle corrispondenze feconde fra natura ed animo umano:

Là su l’alto del colle, e da quel lato

che piú guarda il meriggio e che del monte

schermo si fa contro aquilon gelato,

siede una casa con bei campi a fronte,

ove, serpendo, affrettasi un ruscello

puro, che cade dall’alpina fonte.

E una selvetta fresca, e del piú bello

verde che v’abbia, pende sul declive

de la valletta, che fa strada a quello;

e dei vigneti salgon tra le vive

pietre dell’erta, e miste ad essi piante

di mandorle gentili e molli ulive.

Poi da la parte dove il fiammeggiante

sol declinando porta l’alba e il zelo

dell’opre a gente ch’è da noi distante,

veggonsi e paschi, e con argenteo velo

estesi laghi e boschi e poggi ed erti

monti a la fine e l’Alpi azzurre e il cielo.

Dolce soggiorno, dove i cori aperti

sono la gioia all’innocenza antica,

lungi dai giochi di fortuna incerti;

dolce soggiorno, dove l’aria è amica,

salubre il cibo, e il vin vecchio e robusto

ne la vecchiezza altrui vigor nutrica.[79]

Ma certamente è con la Salubrità dell’aria che la poetica pariniana si rivela nelle sue caratteristiche piú nuove rispetto all’Arcadia e in accordo con la poetica del sensismo illuministico che utilizza testi francesi e italiani, dal Batteux al Beccaria, per la fondamentale convinzione che la poesia deve «toccare» il lettore descrivendo con la massima perfezione gli oggetti in modo che questi possano accrescere le loro idee.

Si rilegga nella Salubrità dell’aria la descrizione delle «navazze» e delle condizioni antiigieniche della Milano 1759 e si avrà la misura dell’aura morale e poetica di questo poeta dell’illuminismo italiano e del risultato di efficacia e di eleganza che il Parini ottiene con una tecnica di semplicità evidente, di esaurimento e rilievo delle impressioni sensoriali, di forza morale e saggia che tende e limita l’espressione:

Ma al piè de’ gran palagi

là il fimo alto fermenta;

e di sali malvagi

ammorba l’aria lenta

che a stagnar si rimase

tra le sublimi case.

Quivi i lari plebei

da le spregiate crete

d’umor fracidi e rei

versan fonti indiscrete,

onde il vapor s’aggira,

e col fiato s’inspira.

Spenti animai, ridotti

per le frequenti vie,

de gli aliti corrotti

empion l’estivo die:

spettacolo deforme

del cittadin su l’orme!

Né a pena cadde il sole

che vaganti latrine

con spalancate gole

lustran ogni confine

de la città che desta

beve l’aura molesta.[80]

Una nuda prosa non darebbe l’effetto e il pregnante suggerimento espressivo di questi versi cosí misurati, ragionati e pur cosí impressionanti nel rendere con parola cruda, precisa e come sollevata e resa impassibile dall’aggettivazione aulica, sensazioni spiacevoli ed urtanti nel loro finale intento ammaestrativo e polemico. Si pensi all’impressione realistica e pure elegante delle «spalancate gole», dell’«aura molesta», delle «vaganti latrine» nella perfetta dosatura di realistico e aulico-classicistico. La lezione di Orazio, dei suoi traduttori, del Lucrezio marchettiano e del Fracastoro del Benini trovava in questo poeta coraggioso e riformatore un’applicazione veramente superiore e funzionale a sicuri motivi personali e nuovi.

In questa poesia il Parini si svincola piú risolutamente dalla poetica dell’Arcadia e il motivo de «le belle colline» e del «bel lago» e delle villanelle a cui «sí vivo e schietto / aere ondeggiare fa il petto» è sentito in funzione di quello civile, mentre nel motivo campestre è sempre chiaro il riferimento nuovo alla sanità naturale, principio di sanità civile e non rifugio evasivo, non fuga dalla realtà in uno scenario immaginario e convenzionale.

È specialmente il gruppo delle Odi fino al ’70 circa che piú risente della volontà polemica con cui il Parini impone la sua nuova poetica di classicismo in funzione civile, nutrito di immagini attinte alla realtà sensoriale: L’impostura del ’61, L’educazione del ’64, e poi L’innesto del vaiuolo del ’65, Il bisogno del ’66, La musica del ’69-70.

In queste odi il Parini è bene il poeta (l’interprete cioè, non solo l’illustratore) della civiltà illuministica lombarda e naturalmente della sua interpretazione di quella civiltà rinnovatrice e giovanile nel suo impeto di svecchiamento (indicativa è la parentela di queste odi con articoli del «Caffè» e con articoli dello stesso Parini sulla «Gazzetta di Milano») e pur nel suo equilibrio di modello medio, di umanitarismo per la vita civile e non per esuberante sentimentalismo.

I temi di quella poesia sono altrettanti bandi di una poetica illuministica che mira ad una forma incisiva e pur facile, lapidaria e divulgatrice, che sappia condensare al massimo le sensazioni a cui si appoggiano le sue immagini e renderle con la massima evidenza nella chiarezza di una linea, di una costruzione controllata dalla ragione.

Sicché il ritmo e la breve musica devono stringere, sottolineare ma non sommergere l’immagine efficace e la linea di persuasione, mentre la cura classicistica non deve limitarsi come nel Savioli all’eleganza preziosa del singolo quadretto (esigenza piú viva in composizioni di direzione unicamente edonistica), ma serve ad un rilievo sobrio, altamente discorsivo, pur lontano dal piatto discorsivo delle Epistole algarottiane e bettinelliane.

Il procedere limpido della ragione sperimentante e civilizzatrice deve immettersi nella poesia, dentro il tessuto sensuoso e armonioso della poesia che inevitabilmente in questa fase dell’opera pariniana fa piú sentire lo sforzo di un incontro fra bellezza, utile e verità, facilitato dalla comune radice del naturale, taumaturgica fonte di ogni forma di vita. Ed è una singolare ricerca di tono medio che può portare in poesia ogni argomento, può alzarsi fino a sdegni magnanimi, scendere fino a rapide descrizioni mantenendo limpidezza, evidenza, eleganza inscindibili, secondo una teoria che vuole appunto la poesia utile e dilettevole e in quanto dilettevole ancora utile agli uomini bisognosi di un «onesto piacer vantaggioso» alla loro felicità individuale e sociale.

Se nel binomio «utile e lusinghevol canto» proclamato nella citata chiusa programmatica della Salubrità dell’aria ritorna l’oraziano e tradizionale utile dulci, non si può dire però che questa sia la stanca ripresa di un logoro luogo comune; perché nuova è la tensione ideologica e poetica di cui quei vecchi termini si caricano, nuovo è il commosso sentimento di una nuova città degli uomini e per gli uomini, della cui costruzione il poeta illuminista si sente attivo collaboratore, esaltando nella sua poesia la difesa combattiva dei nuovi valori e la prefigurazione affascinante del loro futuro inveramento in una civiltà sana, pacifica, attiva, sobria ed antiascetica, sorta su interessi e istinti originari diretti dalla ragione al bene inseparabile degli individui e della collettività, ottimisticamente luminosa in miti alti e semplici di serenità, di festa, di lieta fruizione e di beni duraturi e non frivoli.

E si ricordi l’immagine, nell’Innesto del vaiuolo, della fecondità sana delle nuove generazioni salvate dal morbo mortale o deformante:

Come biada orgogliosa in campo estivo

cresce di santi abbracciamenti il frutto...[81]

o l’immagine, nella stessa ode, degli onori resi al Bicetti, introduttore del vaccino in Italia:

Le giovinette con le man di rosa

idalio mirto coglieranno un giorno:

all’alta quercia intorno

i giovinetti fronde coglieranno;

e a la tua chioma annosa

cui per doppio decoro

già circonda l’alloro

intrecceran ghirlande, e canteranno:

– Questi a morte ne tolse o a lungo danno. –[82]

Sono queste le nuove feste della città illuministica, son questi i suoi nuovi eroi modesti e benefici: l’inventore e l’introduttore del vaccino antivaioloso (nell’Innesto del vaiuolo), il giudice che applica i nuovi principi del metodo preventivo (nel Bisogno, scritto, si ricordi bene, nel ’66, poco dopo la pubblicazione del Dei delitti e delle pene del Beccaria), l’educatore che alleva nuove generazioni all’amore civile del prossimo, all’esercizio delle virtú cittadine e umane (nell’Educazione), e poi il magistrato onesto che si adopera per la prosperità e la giustizia della città da lui amministrata (nella Magistratura), e magari la prima fanciulla che si laurea in legge rompendo il pregiudizio dell’inferiorità intellettuale delle donne e iniziando la loro partecipazione piú attiva alla vita e al progresso della loro città (nella Laurea).

E il Parini si vagheggia (di nuovo nell’Innesto del vaiuolo) quale poeta di queste nuove feste e di questi nuovi eroi, consapevole della sua funzione e della funzione dei mezzi della poesia nel suo intervento a sostegno dei nuovi valori e nella lotta contro i disvalori civili e morali:

Tale il nobile plettro in fra le dita

mi profeteggia armonioso e dolce,

nobil plettro che molce

il duro sasso dell’umana mente;

e da lunge lo invita

con lusinghevol suono

verso il ver, verso il buono;

né mai con laude bestemmiò nocente

o il falso in trono o la viltà potente.[83]

In questa posizione, che recupera in direzione illuministica gli elementi umanitari ed egualitari di un cristianesimo depurato di ogni carattere dogmatico e autoritario, le prime Odi (vere battaglie per l’instaurazione della nuova città, che nella sua particolare concretezza è poi la Milano del tempo) si alimentano di fondamentali motivi della nuova cultura. Sia nella polemica contro ogni offesa alla dignità e integrità umana (dall’invettiva contro l’impostura che illuministicamente associa agli impostori dell’epoca i falsi profeti di civiltà fondate sulla superstizione e l’inganno, Numa Pompilio e Maometto, a quella contro l’evirazione di fanciulli per averne «voci bianche»), sia nell’esaltazione lieta e fervida di un nuovo ordine civile scaturito non da imperativi astratti, ma da una concezione vitale e serena che unifica Natura e Ragione, Piacere e Virtú, inseparabili in un armonico equilibrio che verrebbe rovinosamente alterato da un incontrollato abbandono agli istinti naturali o dagli eccessi di un razionalismo astratto e schematico. Come è detto sinteticamente nell’Innesto del vaiuolo:

Tal del folle mortal tale è la sorte:

contra ragione or di natura abusa;

or di ragion mal usa

contra natura che i suoi don gli porge.[84]

Per non dire poi della netta avversione pariniana di fronte ad ogni pervertimento degli istinti naturali, avversione che tanto lo distingue – pur nell’acutezza del suo scandaglio nel denso intrico della sensibilità e dell’istinto di piacere – da ogni attrazione sadico-libertina, da ogni concessione al «piacere perverso» cosí variamente presente e valido in altre tendenze del secondo Settecento europeo, e che si manifesta cosí chiaramente nell’ode La musica (La evirazione) del 1769-1770 di fronte al «perverso piacere» delle «voci bianche»[85]:

Oh misero mortale

ove cerchi il diletto?

Ei tra le placid’ale

di natura ha ricetto:

là con avida brama

susurrando ti chiama.[86]

Il nesso fra istinto e virtú non può, per il Parini, che essere benefico se se ne comprende ed applica la profonda pertinenza al nesso natura-ragione.

E come nell’ode L’educazione i «pronti affetti» che il cielo pone nel cuore del giovane Achille sono la radice essenziale delle «grandi cose», della «somma virtude» che «l’alma rettrice», la ragione, «ne elice», cosí in un «pensiero» piú tardo già ricordato il Parini preciserà la sua armonica visione di una vita razionale e naturale nello svolgimento morale e civile di sensazioni piacevoli piú che nella stessa adesione a principi soprannaturali:

Dio e la Natura ci comandano di vivere non già solamente con una legge scritta e pubblicata, come proveniente dai motivi superiori della religione e dall’amore dell’ordine universale ben conosciuto, ma molto piú con una infinita e variata serie di sensazioni piacevoli, delle quali, rispettivamente a noi, è composto e formato il nostro vivere.[87]

L’utile dulci precisa cosí ancora meglio le sue nuove componenti illuministiche e, intanto, nella stessa poetica che guida il Parini nella costruzione delle prime Odi, elementi razionalistici e sensistici rinnovano e colorano chiaramente le esigenze classicistiche di lucidus ordo della struttura e di perspicuitas delle immagini anche in una efficace rappresentazione di immagini repellenti di miseria, come quelle già analizzate della Salubrità dell’aria, o quella allucinante, nella sua violenza compendiosa, del delitto per fame, nel Bisogno (1766):

mangia i rapiti pani

con sanguinose mani.[88]

Ma, in questa direzione piú polemica della poetica pariniana, il rapporto fra nitida evidenza classicistica e pregnante efficacia razionale e sensuosa si sposta troppo spesso verso il secondo termine, sino a forme di durezza quasi prosastica, corrispettivo di una certa difficoltà a muoversi sulla «negletta via» e, piú, di una certa outrance di energia evidenziatrice e semplificatrice, specie laddove essa indurisce schematicamente la descrizione di azioni perentorie e invincibili, come quella del bisogno nell’ode omonima:

Di valli adamantini

cinge i cor la virtude;

ma tu gli urti e rovini:

e tutto a te si schiude.

Entri, e i nobili affetti

o strozzi od assoggetti.[89]

Questa posizione audace e rischiosa non poteva essere certo il termine definitivo della poetica del Parini (non poeta del bando estremo del «Caffè»: «cose, non parole», ma di parole poetiche nutrite di cose) e in questa stessa fase piú esplicitamente e aggressivamente illuministica venne sviluppandosi una poesia piú complessa e sicura, in cui l’impegno rinnovatore inequivoco (che si precisa e si appunta audacemente, in poesia, proprio contro la classe aristocratica milanese) si cala in una rappresentazione e descrizione ironico-satirica, con un impasto di sdegno e di sorriso, di forza e di morbidezza, di eleganza e di evidenza, in cui piú intimamente si fondono la componente classicistica e le componenti illuministiche e sensistiche, con le loro vibrazioni di gusto rococò.

Ché, ripeto, la giusta valorizzazione delle prime Odi nella novità della loro poetica e dei loro stessi risultati non può e non deve trasformarsi in una assurda esaltazione di quella poetica come della vera via che il Parini avrebbe dovuto seguitare a percorrere per un vero rinnovamento della poesia italiana e in una indiscriminata accettazione di quei risultati, spesso insidiati e limitati dai pericoli accennati e da quelli di certa discorsività ed eloquenza prosastica e di certa piú legnosa difficoltà di espressione. Nacque cosí il Giorno, in cui, come dicevo, il Parini sceglieva un preciso argomento (la satira della nobiltà lombarda), con personale decisione e coraggio, ma certo anche ben intonato alle stesse generali direzioni del riformismo teresiano, prudente ma deciso – di fronte alla situazione arretrata della Lombardia – a rompere i vincoli e i residui feudali, a liberare l’attività economica e agricola dai privilegi gravosi di una nobiltà parassitaria ed oziosa, in un’opera di rinnovamento che venne sviluppata poi da Giuseppe II in forme ancor piú decise e sistematiche.

5. Il «Giorno»: i due poemetti del ’63-65

Alla base dell’impegno poetico, che si inserisce e si distingue entro il percorso delle prime odi con il suo carattere piú organico e complesso, e che trova realizzazione nelle due prime parti del Giorno – il Mattino fu pubblicato nel 1763, il Mezzogiorno nel 1765, mentre la terza parte, pensata come ultima, la Sera, fu iniziata e presto abbandonata a favore della continuazione delle Odi e del loro sviluppo, come vedremo, verso una nuova poetica di tipo piú chiaramente neoclassico entro la quale tanto piú tardi fu attuata la revisione delle due prime parti e portata avanti, anche se mai interamente conclusa, l’attuazione delle ultime due parti, il Vespro e la Notte – sta un impegno ideologico-pratico di battaglia illuministica riformatrice che piú tardi (nell’epistola al De Martini) il Parini rivedrà come audace e concreta collaborazione e addirittura come anticipazione dei progressivi programmi e provvedimenti di riforma civile del governo teresiano e giuseppino, specie nella «riforma» della classe aristocratica sentita come massimo ostacolo alla piú generale riforma lombarda.

In questa battaglia, realizzata con la poesia e nella poesia, e dunque con un’ambizione e una consapevolezza ben superiori a quella di un’impresa rozzamente propagandistica o viceversa puramente illustrativa e ornamentale, il Parini si proponeva un intervento deciso sulla situazione sociale, civile e morale della Lombardia contemporanea, assecondando, e sollecitando al di là delle sue prime attuazioni, la spinta rinnovatrice del governo e dei gruppi avanzati di intellettuali e letterati variamente attivi nella cultura lombarda, provenienti spesso da quella stessa classe privilegiata di cui il poeta intendeva rappresentare, colpire e ridicolizzare il modo di vita, il costume parassitario e ozioso, le pretese a privilegi privi di ogni corrispettivo di reale funzione sociale e civile, la resistenza alle nuove idee e ai nuovi valori, che essa viceversa svuotava con una accettazione dilettantesca e frivola usandoli come rinnovato alibi alla propria irresponsabilità, al proprio edonismo perverso, alla propria immoralità e amoralità. E cosí facendo intendeva insieme portare avanti piú concretamente quell’opera di «educazione» (si ricordi l’omonima ode del ’64 rivolta al suo giovane allievo aristocratico, Carlo Imbonati) della stessa classe nobiliare, che egli non mirava a distruggere, ma a «riformare» e a riportare ad una funzione civile e laboriosa, coerente al suo ideale di una società attiva ed armonica, tesa, pur nelle diverse condizioni sociali, da un’unica preoccupazione di progresso, di «bene pubblico», di «pubblica felicità» accomunante tutti i componenti della società e dello stato: dal governo illuminato alla rinnovata classe nobiliare, ai borghesi, ai ceti artigiani e contadini. Base fondamentale, questi ultimi, della stessa prosperità generale, riserva inesausta di energie e di vissuti valori di laboriosità, di sobrietà, di sanità naturale, specie se sottratti alle condizioni di mortificante indigenza, di servilismo e magari di particolare boria e crudeltà servile (la boria misera della «livrea», la spietatezza del cocchiere che investe i propri fratelli di sventura), in cui molti di loro erano ridotti dall’ingiusta struttura sociale e dalle forme di esistenza della classe nobiliare che li escludeva dalla effettiva appartenenza alla società civile e li spingeva al delitto per «bisogno» o ad una vergognosa e viziosa inattività.

L’impostazione ideologica e combattiva del Giorno si precisava in una prospettiva riformatrice persuasa e salda, animata da una sincera carica di sdegno civile ed umano, da una appassionata e lucida fede in valori positivi e nella possibilità e necessità della loro attuazione, dal sentimento deciso di una situazione ingiusta e storicamente in ritardo con le condizioni della nuova cultura e persino con gli avvii del riformismo governativo: il tutto entro una viva e complessa interpretazione della natura dell’uomo, della sua struttura fisica e morale, del suo bisogno di felicità, della necessità, per realizzarlo, di una sicura vita di rapporti e di mutua collaborazione e insieme delle deviazioni dei suoi istinti verso la prepotenza egoistica, verso il piacere «perverso», verso l’ozio e l’aberrante fruizione morbosa dei beni mondani.

Né la prospettiva riformistica (non rivoluzionaria) toglie vigore e valore (entro le concrete condizioni della mentalità pariniana) al fervido senso dei motivi egualitari e umanitari illuministici che, specie nelle prime due parti del Giorno (di cui ora qui ci occupiamo), si affacciano piú volte, severi e aggressivi, proprio al culmine di alcuni degli episodi poeticamente piú complessi e piú alti, o si motivano tanto piú efficaci e persuasivi proprio nell’impasto insinuante dell’eleganza, dell’ironia, della favola, e continuamente circolano nel fondo dei due poemetti (e in quello – se pur piú sottilmente – di tutto il poema) come elemento essenziale della fede illuministica pariniana. Ché se essi non sono avviati ad uno sfocio rivoluzionario e «presocialista», sono pur coerenti ad una visione riformistica che gradua condizioni e funzioni sociali in un equilibrio armonico e tutt’altro che privo di passaggi e sviluppi fra quelle, ma rompe risolutamente ogni distinzione «naturale» e magari «divina» fra gli uomini (rappresentata invece come «innaturale» ed «empia»), e, pur nel suo esito moderato, provoca di fatto entro il poema un’appassionata tensione umana e civile, una protesta vigorosa e lucida, un senso profondo della comune dignità umana, una ripugnanza invincibile per l’ingiustizia, il sopruso, la violenza di un ordine sopraffattorio: pur elementi che ebbero peso e consistenza profonda entro le possibilità dello svolgimento storico concreto della letteratura e della cultura del secondo Settecento.

Tanto piú che tali motivi (già diffusi nella cultura europea) trovavano la vita e la sanzione profonda della poesia e, attraverso la sua forza particolare, ricircolavano nella storia con l’accresciuto vigore di una loro rappresentazione concreta e fantastica, di una loro definizione impressiva-espressiva tanto superiore ad una loro enunciazione astratta o ad una loro presentazione in forma di perorazione e di pamphlet.

In questa prospettiva il Parini puntò centralmente sul capovolgimento di una impostazione pedagogica direttamente positiva, e di un poema esaltatore delle gesta di un «eroe», nella impostazione ironica-parodistica di una pedagogia dell’«amabil rito», della «dolce vita» della nobiltà oziosa e parassitaria e di un poema illustratore delle gesta-non gesta di un «eroe-antieroe» («il mio divino Achille, il mio Rinaldo»), cercando cosí di svelare appieno la squallida e ripugnante realtà di quel costume e di quel personaggio rappresentativo di tutta una classe, tanto piú lumeggiata nel controluce della satira ironica, nella morbidezza ambigua della sua rappresentazione e nel contrasto con due dimensioni diverse e tutte e due necessarie di una retta interpretazione ideologica e critica.

Cosí il passato della stessa classe aristocratica non vi è certo vagheggiato (ché esso pur si presenta nella sua origine di violenza e di autoritarismo e nella sua deviazione dalla legge fondamentale della sostanziale uguaglianza degli uomini[90]), ma è riscattato almeno (in funzione di polemica con l’attuale classe aristocratica) nella sua rude energia, nel suo coraggio bellicoso, nella esistenza comunque di una sua funzione entro contesti storici che il Parini non ama, ma pur comprende nelle loro ragioni di particolari società: il feudatario usurpa, ma assicura bene o male la vita dei suoi soggetti, ha una funzione in un tessuto sociale; il nobile cittadino poté diventare funzionario, magistrato, collaboratore attivo di governi. Mentre il «giovin signore», che «da tutti servito a nullo serve», è anzitutto caratterizzato da un’assoluta mancanza di qualsiasi funzione, è un ingombro ostacolante o superfluo nella società contemporanea, e, perdute le dubbie virtú dei suoi antenati feudali o mercantili (la nobiltà attaccata dal Parini è ugualmente nobiltà di sangue o di ricchezza accomunata dallo stesso spirito di sopraffazione, di boria, di ozio e sperpero) di cui non possiede piú neppure il coraggio e la dura energia[91], vive una vita fittizia e larvale, fatta di ozio e di oziose occupazioni in un perenne circolo di ozio-tedio[92] (da cui si sviluppa entro l’ironia e la satira quel tanto di malinconia di una esistenza-non vita di cui parlò il Leopardi per il Giorno) e di piacere frivolo e falso che chiaramente si contrappone al fervido circolo vitale – natura-ragione e piacere-virtú – della positiva prospettiva pariniana.

D’altra parte, alla descrizione della vita nobiliare fa contrasto (con un tanto piú chiaro e positivo vagheggiamento da parte del Parini) la rappresentazione della vita sana e laboriosa del popolo che solo l’ingiusta struttura sociale può degradare nella ripugnante e miserevole forma di una plebe di mendicanti[93] o di servi che apprendono vizi e oziosità dai loro padroni e che, dove pur sono sottomessi ad una funzione di attività sfruttata dalla classe parassitaria, rivelano quelle doti di esercizio serio della vita, di affetti familiari, di vicinanza alla natura che li renderebbero tanto piú parte attiva, e in qualche modo esemplare, di una società basata sulla diversità di funzioni e sulla uguaglianza di dignità e di corrispondenza fra diritti e doveri.

Quel popolo compare infatti sul primo piano del poema solo sporadicamente, con un sobrio impiego a contrasto, ma quel tanto che basta per mostrare chiaramente la profonda simpatia pariniana, che si esprime anche nella costante associazione di popolo e paesaggio naturale e campestre, laddove la vacua figura del «giovin signore» e del «bel mondo» parassitario non ha mai sfondo di paesaggio, ma solo inquadratura di interni decorati, preziosi, artificiosi, anche se pur ambiguamente attraenti per il Parini nella componente di eleganza rococò della sua stessa poesia.

E non a caso proprio l’inizio della descritta giornata coincide con l’arioso e nitido quadro dell’alba, della campagna e del «buon villano»:

Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba

innanzi al Sol che di poi grande appare

su l’estremo orizzonte a render lieti

gli animali e le piante e i campi e l’onde.

Allora il buon villan sorge dal caro

letto cui la fedel sposa, e i minori

suoi figlioletti intepidír la notte;

poi sul collo recando i sacri arnesi

che prima ritrovàr Cerere, e Pale,

va col bue lento innanzi al campo, e scuote

lungo il piccol sentier da’ curvi rami

il rugiadoso umor che, quasi gemma,

i nascenti del Sol raggi rifrange.[94]

E cosí, a contrasto con la lunga, ossessiva descrizione satirica del costume corrotto della vita coniugale aristocratica e dell’uso del «cavalier servente» (materia largamente usufruita dal Parini in relazione alla sua fede nell’importanza del nucleo familiare e dell’essenziale nodo vitale delle nozze e della procreazione), proprio in seno alla rude e semplice vita contadina si ritroverà la «rosa» del pudore «all’Amor cara / e cara all’Onestade»:

ora ne’ campi

cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi

a le rozze villane il viso adorna.[95]

Cosí come (in versi poi passati nel Vespro, ma inizialmente presenti nella parte finale del Mezzogiorno del ’65) il rilievo della delicatezza sfibrata del «giovin signore» risalta piú nel contrasto con l’energica descrizione dei lavoratori e della loro forza laboriosa e rude, intensamente espressa in quelle «man scabre e arsicce» che oltretutto ben rivelano la capacità pariniana (si pensa a una figuratività alla Chardin o alla Ceruti) di rendere poetica, con pochi tocchi essenziali, una realtà schietta e vigorosa.

Infine anche l’attacco ironico-satirico ad elementi della cultura del tempo va compreso non solo alla luce della prospettiva di riforma equilibrata e moderata del Parini, ma piú ancora (nelle intenzioni precise del Giorno) come attacco alla interpretazione e alla utilizzazione della cultura illuministica nei suoi elementi piú negativi che positivi del suo prepotente bisogno di divulgazione enciclopedica, da parte dei «giovin signori» alle cui precise condizioni di vita e di mentalità van pure riportate le affermazioni anche piú generali del Giorno.

Nell’angolatura della satira del «bel mondo» e dei «begli spirti» prendono il loro piú esatto valore gli stessi attacchi al volterianesimo e al rousseauismo divenuti, nella loro disinvolta versione edonistica e cinica (e frutto di lettura frettolosa), alibi di licenza e di spregiudicatezza morale, mentre i «giovin signori» ne rifiutano il «tossico mortal» della comune dignità degli uomini, il fondo di spirito egualitario e liberale che il Parini ben mostra di aver assimilato entro la sua stessa prospettiva moderata.

Si rilegga il lungo brano del Mezzogiorno dedicato alle letture «progressive» del giovin signore e si capirà bene dove l’attacco pariniano (che pur indubbiamente colpiva anche aspetti veri dell’illuminismo francese nella propria concezione moderata e legata alla rinnovata valutazione di valori tradizionali e «italiano-lombardi») puntasse, proprio in rapporto con l’illuminazione della coerente somma di vecchi pregiudizi e di nuovi alibi con cui i «semidei terreni» sostenevano il loro duro sfruttamento delle classi subalterne e la propria vita parassitaria:

Cotesto ancor di rammentar fia tempo

i novi Sofi, che la Gallia, e l’Alpe

esecrando persegue: e dir qual arse

de’ volumi infelici, e andò macchiato

d’infame nota: e quale asilo appresti

filosofia al morbido Aristippo

del secol nostro; e qual ne appresti al novo

Diogene dell’auro spregiatore,

e della opinione de’ mortali.

Lor volumi famosi a te verranno

da le fiamme fuggendo a gran giornate

per calle obliquo, e compri a gran tesoro

o da cortese man prestati, fièno

lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi.

Poiché scorsi gli avrai pochi momenti

specchiandoti, e a la man garrendo indotta

del parrucchier; poiché t’avran la sera

conciliato il facil sonno, allora

a la toilette passeran di quella

che comuni ha con te studj e licèo,

ove togato in cattedra elegante

siede interprete Amor. Ma fia

la mensa il favorevol loco ove al sol esca

de’ brevi studj il glorioso frutto.

Qui ti segnalerai co’ novi Sofi

schernendo il fren che i creduli maggiori

atto solo stimàr l’impeto folle

a vincer de’ mortali, a stringer forte

nodo fra questi, e a sollevar lor speme

con penne oltre natura alto volanti.

Chi por freno oserà d’almo Signore

a la mente od al cor? Paventi il vulgo

oltre natura: il debole Prudente

rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo

titol di Saggio, mediti romito

il Ver celato; e alfin cada adorando

la sacra nebbia che lo avvolge intorno.

Ma il mio Signor, com’aquila sublime

dietro ai Sofi novelli il volo spieghi.

Perché piú generoso il volo sia,

voli senz’ale ancor; né degni ’l tergo

affaticar con penne. Applauda intanto

tutta la mensa al tuo poggiare ardito.

Te con lo sguardo, e con l’orecchio beva

la Dama dalle tue labbra rapita:

con cenno approvator vezzosa il capo

pieghi sovente: e il calcolo, e la massa,

e l’inversa ragion sonino ancora

su la bocca amorosa. Or piú non odia

de le scole il sermone Amor maestro;

ma l’accademia e i portici passeggia

de’ filosofi al fianco, e con la molle

mano accarezza le cadenti barbe.

Ma guàrdati, o Signor, guardati, oh dio!

dal tossico mortal che fuora esala

dai volumi famosi; e occulto poi

sa, per le luci penetrato all’alma,

gir serpendo nei cori; e con fallace

lusinghevole stil corromper tenta

il generoso de le stirpi orgoglio

che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli,

che ciascun de’ mortali all’altro è pari;

che caro a la Natura, e caro al Cielo

è non meno di te colui che regge

i tuoi destrieri, e quei ch’ara i tuoi campi;

e che la tua pietade, e il tuo rispetto

dovrien fino a costor scender vilmente.

Folli sogni d’infermo! Intatti lascia

cosí strani consiglj; e sol ne apprendi

quel che la dolce voluttà rinfranca,

quel che scioglie i desiri, e quel che nutre

la libertà magnanima...[96]

E cosí, alla luce del centrale attacco pariniano alla «moda» (quella moda che per il Leopardi diverrà sorella e collaboratrice della morte in un mondo privo di saldi e profondi valori) a cui «i giovin signori» adeguano (in mancanza di ogni altro vero principio di comportamento) i loro frivoli modi di vita, si precisa la satira del «bongusto» alla francese (dai vestiti dalla fattura preziosa e magari «alla greca», ai «menomi» lavori di artigianato, alla lingua), o dello stesso culto di Orazio, il «dilicato cortigian di Augusto» (che pur tanto Parini ammirava per lo stile) e di Petronio Arbitro – incentivi di libertinismo e di epicureismo – o infine anche degli stessi elogi del «lusso», considerato promotore di attività e mezzo di vita dei lavoratori, e sin del commercio, che è aggredito sia nella prospettiva pariniana della preminenza dell’agricoltura, sia nell’angolatura del carattere di «moda» di quegli elogi, a cui perciò facilmente accedono il giovin signore e la sua dama, attratti anche dall’implicito alibi che ne ricavano al loro disinteresse sfruttatore di proprietari terrieri per le condizioni delle campagne e dei loro abitanti e coltivatori, e al loro sibaritico modo di vita che vede nel commercio il tramite di raccordo fra le arti voluttuarie e la circolazione dei loro prodotti ad alimento del lusso. Ché poi proprio nel confronto fra Sibari da una parte a Cartagine e Tiro dall’altra si chiarisce come il Parini, pur vicino ai fisiocrati, e in polemica con vicini alleati e avversari come Pietro Verri, volesse pur indicare una diversa accezione positiva dello stesso commercio, anche se subordinato all’intensificazione dell’agricoltura.

Commercio alto gridar, gridar commercio

all’altro lato de la mensa or odi

con fanatica voce: e tra ’l fragore

d’un peregrino d’eloquenza fiume,

di bella novità stampate al conio

le forme apprendi, onde assai meglio poi

brillantati i pensier picchin la mente.

Tu pur grida commercio; e la tua Dama

anco un motto ne dica. Empiono è vero

il nostro suol di Cerere i favori,

che tra i folti di biade immensi campi

move sublime; e fuor ne mostra a pena

tra le spighe confuso il crin dorato [...]

Che vale or ciò? Su le natie lor balze

rodan le capre; ruminando il bue

lungo i prati natii vada; e la plebe

non dissimile a lor, si nutra e vesta

de le fatiche sue; ma a le grand’alme,

di troppo agevol ben schife Cillenio

il comodo presenti a cui le miglia

pregio acquistino, e l’oro; e d’ogn’intorno:

commercio risonar s’oda, commercio.

Tale dai letti de la molle rosa

Sibari ancor gridar soleva; i lumi

disdegnando volgea dai campi aviti...[97]

A realizzare in poesia il suo impegno ideologico-pratico il Parini scelse una via complessa e difficile, in cui impiegò (pur urtando in certi limiti di un’operazione cosí ardua e interamente «artistica» e rivelandovi certi limiti della sua forza sentimentale e fantastica) tutte le risorse artistiche a sua disposizione in quella fase della sua attività, tutte le acquisizioni della sua cultura letteraria, tutti i piú adatti moduli e modelli della tradizione antica e recente, cosí come utilizzava (senza perciò affidarsi ad una precisa chiave di «cronaca» milanese con riferimenti a personaggi indentificabili, come si pensò circa un preciso modello del «giovin signore» in Alberico da Barbiano) il vivo frutto della sua esperienza della vita della nobiltà milanese (o, meglio, della sua parte prevalente) fatta nella casa dei Serbelloni e in altre case nobiliari da lui frequentate.

Sul piano dei modelli usufruiti l’arco dell’attiva attenzione pariniana è assai lungo in rapporto alla varietà dei toni e degli scopi e mezzi espressivi della poetica del Giorno: poemi didascalici, modelli di tecnica descrittiva di oggetti, di azioni, di meccanismi della sensibilità, della psicologia, dei comportamenti morali e intellettuale (dalla lezione virgiliana delle Georgiche ai poemi cinquecenteschi dell’Alamanni o del Rucellai, alle traduzioni settecentesche di poemi latini classici e umanistici – la fondamentale traduzione del De rerum natura da parte del Marchetti o quella della Sifilide del Fracastoro da parte del Benini, fino ai poemi didascalici di primo Settecento); satire e teatro satirico-morale in rapporto al piú diretto tono satirico (la larga messe di satire tra fine Seicento e primo Settecento, il teatro meneghino del Maggi), poemi eroicomici (dal Tassoni al Forteguerri) in rapporto al tono falso-eroico e alla parodia dell’eroico; poemi e componimenti teatrali direttamente satirici (il poemetto latino del Lucchesini In antimeridianas improbi iuvenis curas o il Femia sentenziato del Martello, scuola stimolante di un verso sciolto classicistico-satirico) e – al centro degli stimoli europei di descrizione satirico-ironica del «bel mondo» insaporita di gusto classicistico-rococò e di eleganza sensuosa ed icastica – l’esempio fortemente indicativo del Rape of the Lock del Pope, vulgato in Italia dalle traduzioni del Bonducci e del Conti. Ma dietro a questa folla di modelli, variamente usufruiti (e magari dietro le stesse consonanze stimolanti di modelli dell’arte figurativa italiana ed europea del periodo rococò e dell’incipiente realismo, che pur poterono esser presenti al Parini almeno nelle stampe e nelle incisioni, come nelle forme dell’ornamentazione delle «arti minori» e del mobilio dei palazzi aristocratici milanesi) van tanto piú nettamente indicate le componenti di gusto (ma non solo di gusto) della poetica storico-personale del Giorno e la loro complessa graduazione, fusione e funzione entro l’operazione poetica pariniana e in relazione alla centrale tensione illuministica.

Anzitutto le componenti classicistica e sensistica, che corrispondono profondamente ad ideali e prospettive culturali-ideologiche del Parini: la lezione dei classici è insieme lezione di perfezione formale e recupero di un alto mondo di esemplari valori morali e civili, il gusto sensistico traduce l’essenziale adesione del Parini ad una filosofia dell’esperienza concreta che lega, attraverso la sensibilità, natura, oggetti, uomini, e la sua salda fede in una civiltà fondata sulla conoscenza e sullo sviluppo razionale della struttura sensibile della realtà dell’uomo. Esse si presentano come le piú importanti nella poetica del Giorno, sia nella loro separata esistenza sia, e piú, nella loro intima fusione già viva, a diverso livello di maggiore sommarietà, nelle prime Odi, e nel Giorno applicata sino in fondo, sino alla sua piú sottile e pregnante funzione.

Mentre la componente sensistica (su di una via che trova corrispondenze profonde con l’estetica sensistica specie nella sua versione italiana e lombarda: si pensi almeno alle Ricerche intorno allo stile del Beccaria) è l’essenziale strumento di captazione e descrizione della realtà e concretezza sensoriale delle cose, delle azioni, dei movimenti interni (si pensi subito ai «pruriginosi cibi» e magari al «domabile midollo» del cervello e alla descrizione sensistica dell’origine delle idee), la componente classicistica – che espande le sue qualità di perspicuitas, di lucidus ordo, di superiore eleganza e perfezione in tutta la struttura del poema, nella sua tessitura, nel taglio dei suoi episodi – è l’essenziale strumento di definizione lucida ed elegante, di evidenziazione precisa e concisa della realtà sensibile percepita ed attinta dalla prensile descrizione sensistica, è lo strumento con cui il Parini tende a fermare in durata e in consistenza poetica l’attimale e fluida realtà sensoriale.

E solo in forza del suo classicismo moderno (che potrà apparire remora e ostacolo di vecchio linguaggio solo alla nuova prospettiva romantico-popolare) il Parini poté – si ricordi bene – storicamente esprimere una realtà viva e nuova, la sua prospettiva illuministica e i suoi ideali, poté costruire poeticamente la vita varia e complessa che si muove nel Giorno. Ma, ripeto, è soprattutto nella fusione, nell’equilibrio, nella reciproca necessità delle componenti classicistica e sensistica che la poetica del Giorno trova la sua base essenziale di linguaggio e di discorso poetico[98]. E ad essa, a ben vedere, pertiene quello stesso strumento metrico e ritmico dell’endecasillabo sciolto che il Parini nella dedica Alla moda poté ironicamente presentare come una concessione alla «moda» del tempo (sono gli anni della singolare fortuna del verso sciolto e delle polemiche contro la «servile rima» già iniziate dal Gravina), ma che in realtà fu scelta profondamente seria e coerente alla volontà pariniana di un discorso poetico continuo, regolato da una interna necessità, capace di adeguare, evidenziare, esprimere, con fluida e lucida densità, una realtà descritta e satireggiata, indagandola e rilevandola nelle sue pieghe piú sottili e duttili appunto col concorso degli strumenti espressivi classicistico-sensistici e di un’appropriata misura metrica altrettanto duttile ed aderente e insieme nobilitante. Sia per la sua somiglianza all’esametro classico, sia per le sue intrinseche possibilità di scioltezza, di pieghevolezza, di aderenza, di sollecitazione ritmica della rappresentazione, del rilievo ironico e pungente, dell’elegante e mobile misura attuata con infiniti accorgimenti tecnici (l’inversione, la ripetizione a distanza di parole tematiche, la rottura e la continuazione del verso per mezzo dell’«arcatura», la lieve dissonanza, il rallentamento e l’accelerazione del ritmo) che pur traggono forza e giustificazione dalla densità interna ed organica – anche se non sempre poeticamente realizzata – della prospettiva storico-poetica nelle sue concrete componenti ideologico-artistiche.

Un’altra componente che va pur convenientemente calcolata nell’apertura del Parini al gusto della propria epoca è quella «rococò»[99], che soprattutto collabora, sulla base piú centrale delle componenti classicistico-sensistiche, alla descrizione satirico-ironica delle forme frivole ed eleganti del mondo nobiliare, specie nei fondali figurativi e ornamentali dei suoi ambienti alla moda. Il rococò pariniano, ben lungi dalla funzione cortigiana di tanto rococò europeo (diretta collaborazione di artisti all’ornamento della vita delle classi dominanti), corrisponde, piú che a un diretto compiacimento dell’artista per quelle sembianze eleganti di un mondo moralmente e civilmente vuoto e condannato da lui e dalla storia, a un’ulteriore possibilità della sua poetica: possibilità di linea piú sinuosa e morbida, di sfumature e di arricchimento prezioso e capriccioso, di colore-disegno, fluido e frizzante, in cui si ripercuotono allusioni e stimoli della pittura e delle arti minori dello stile Luigi XV e con cui il classicismo sensistico si arricchisce di vibrazioni galanti e lucidamente tenere entro l’angolatura ironico-satirica, che può venire qualche volta quasi superata in superficie dall’indugio compiaciuto dell’artista nel fascino stesso della sua opera piú preziosa e raffinata, ma che centralmente domina anche le parti piú sfaccettate e autonome della sua componente rococò.

Alla stessa maniera dovrà dirsi che i vari toni e livelli di rappresentazione della sua favola ironico-satirica possono sí distinguersi e precisarsi, ma non isolarsi assolutamente entro risultati eterogenei e privi di un loro accordo funzionale e di una loro tensione verso i risultati piú sintetici ed alti della prospettiva poetica del Giorno.

Nella fondamentale direzione dell’ammaestramento del «giovin signore» e nella rappresentazione delle varie fasi della sua giornata si esercita anzitutto l’eccezionale capacità pariniana di evidenza esauriente, sensuosa ed elegante degli oggetti, che supera la semplice descrizione e l’allineamento di elementi obbiettivi (piú comune alla poesia direttamente didascalica, della cui lezione pure, come si è detto, molto si serví il Parini) in quella piú raffinata, agile e cesellata rappresentazione di una realtà restituita alla dimensione artistica mercè il concorso attivo delle componenti del sensismo, del rococò, del classicismo, saldati in una tecnica prensile e duttile che insieme evidenzia e nobilita gli oggetti senza perderne mai la base di concretezza, verificabile puntualmente in precise impressioni sensoriali, visive, sonore, e sin tattili ed olfattive.

Si rilegga cosí, almeno in parte, la lunga descrizione degli oggetti che costituiscono la «nobil soma» di «leggiadri arnesi» di cui il giovin signore «graverà sue vesti / pria che di sé medesmo esca a far pompa»:

Veggo l’Astuccio

di pelle rilucente ornato e d’oro

sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero

occupar di sua mole: esso a mill’uopi

opportuno si vanta, e in grembo a lui

atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne

vien forbita famiglia. A lui contende

i primi onori d’odorifer’onda

colmo Cristal che a la tua vita in forse

rechi soccorso allor che il vulgo ardisce

troppo accosto vibrar da la vil salma

fastidiosi effluvj a le tue nari.

Né men pronto di quella all’uopo istesso

l’imitante un cuscin purpureo Drappo

mostra turgido il sen d’erbe odorate

che l’aprica montagna in tuo favore

al possente meriggio educa e scalda.

Seco vien pur di cristallina rupe

prezïoso Vasello onde traluce

non volgare confetto ove agli aromi

stimolanti s’unío l’ambra o la terra,

che il Giappon manda a profumar de’ Grandi

l’etereo fiato; o quel che il Caramano

fa gemer Latte dall’inciso capo

de’ papaveri suoi perché, qualora

non ben felice amor l’alma t’attrista,

lene serpendo per le membra, acqueti

a te gli spirti, e ne la mente induca

lieta stupidità che mille aduni

imagin dolci e al tuo desio conformi.

A questi arnesi il Cannocchiale aggiugni,

e la guernita d’oro anglica Lente.

Quel notturno favor ti presti allora

che in teatro t’assidi, e t’avvicini

gli snelli piedi e le canore labbra

da la scena rimota, o con maligno

occhio ricerchi di qualch’alta loggia

le abitate tenebre, o miri altrove

gli ognor nascenti e moribondi amori

de le tenere Dame onde s’appresti

per l’eloquenza tua nel dí vicino

lunga e grave materia.[100]

Brano in cui, senza cedere agli entusiasmi di basso verismo di tanti interpreti della scuola storico-positivistica («par di veder dentro l’astuccio in bell’ordine lo stecchino per gli orecchi, lo stuzzicadenti, le pinzette, le forbicette»[101]), la resa artistica di una realtà obbiettiva è, a suo modo, perfetta, anche se, a questo livello, è pur lecito avvertire i limiti della abilità rappresentativa del Giorno, una certa eccessiva pertinacia di gustoso, minuto rilievo evidenziante, per cui la romantica Staël poté parlare, con estensione generale inaccettabile, dei tours de force della poesia pariniana. Ché d’altra parte sarà subito da notare come, pure a questo livello, la poesia pariniana non manchi della capacità piú suggestiva di innalzare il tono descrittivo (e sempre dall’interno di una poetica che non vuol perdere mai il contatto sicuro con la sua base sensoriale) in sfumature piú complesse, fra ironia e fascino, come nella bellissima vibrazione ironico-patetica, negli ultimi versi citati, degli «ognor nascenti e moribondi amori / de le tenere dame» che, con tanta morbida ed energica sinteticità, riprospetta poeticamente la «commedia dell’amore» nella galanteria frivola, e pure affascinante, del mondo aristocratico settecentesco.

Né su questo piano e livello artistico la tecnica poetica della cattura e resa artistica della realtà si arresta agli oggetti, immobili sotto lo sguardo attivo del poeta, ma si addentra, superando ogni resistenza di rigidezza e di staticità, sia nella resa mobile e conclusa di azioni meccaniche

(Già i valetti gentili udir lo squillo

del vicino metal cui da lontano

scosse tua man col propagato moto),[102]

sia nella sottile descrizione del meccanismo dei sensi e sin in quella della sensistica origine delle idee:

A voi divina schiatta,

vie piú che a noi mortali il ciel concesse

domabile midollo entro al cerèbro,

sí che breve lavor basta a stamparvi

novelle idee. In oltre a voi fu dato

tal de’ sensi e de’ nervi e degli spirti

moto e struttura, che ad un tempo mille

penetrar puote, e concepir vostr’alma

cose diverse, e non però turbarle

o confonder giammai, ma scevre e chiare

ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.[103]

E tanto piú efficacemente questa ammirevole capacità artistica (in cui si esaltano alcune delle piú forti tendenze del gusto e della mentalità del tempo, vincendo ogni ostacolo di rigidezza prosastica o di prolissità discorsiva o di evasione nella canora melodia) si realizza quando la componente della grazia rococò ne fa lievitare il fondo piú sensibile e acuto di densità sensoriale, ne sfuma e screzia incantevolmente la perspicuitas e il lucidus ordo razional-classicistico.

Come in questa descrizione dei movimenti precisi ed eleganti della damina che taglia sapientemente la carne, nella scena del pranzo:

Or si vedranno

de la candida mano all’opra intenta

i muscoli giocar soavi e molli:

e le grazie, piegandosi dintorno,

vestiran nuove forme, or da le dita

fuggevoli scorrendo, ora su l’alto

de’ bei nodi insensibili aleggiando,

et or de le pozzette in sen cadendo,

che dei nodi al confin v’impresse Amore.[104]

Oppure tanto meglio quella capacità si realizza quando il poeta utilizza (nell’inseparabile funzione ironica e satirica di tutto ciò) l’ausilio dell’elemento mitologico del classicismo, riprendendolo nel suo nuovo arricchimento di allusioni rococò, patetiche e sorridenti, nei suoi effetti di elegante nobilitazione della realtà contemporanea.

Sarà il caso, nella scena della toletta del giovin signore, della descrizione del sapone e della polvere di mandorla che, con l’evocazione del mito di Filli trasformata appunto in mandorla, solleva e risolve la scena descrittiva, cosí nitida e sensibile, in un limpido e patetico movimento, in una vibrazione melodico-sentimentale non esteriormente aggiunta, ma intimamente sgorgata dall’attrito della sensibilità e dell’eleganza classicistica, dall’accarezzamento sottile del mondo dei classici implicito nella operazione delle immagini e del linguaggio di tutto il brano:

Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste

la serica zimarra ove disegno

diramasi Chinese; altri, se il chiede

piú la stagione, a te le membra copre

di stese infino al piè tiepide pelli.

Questi al fianco ti adatta il bianco lino

che sciorinato poi cada, e difenda

i calzonetti; e quei, d’alto curvando

il cristallino rostro, in su le mani

ti versa acque dorate, e da le mani

un limpido bacin sotto le accoglie.

Quale il sapon del redivivo muschio

olezzante all’intorno; e qual ti porge

il macinato di quell’arbor frutto,

che a Ròdope fu già vaga donzella,

e chiama in van sotto mutate spoglie

Demofoonte ancor Demofoonte.[105]

O sarà il caso della fragorosa scena del ritorno del giovin signore in carrozza dopo la notte dissipata «tra le veglie e le canore scene / e il patetico gioco», che trova il suo completamento e la sua maggiore vibrazione poetica nella similitudine del ratto di Proserpina:

e stanco alfine

in aureo cocchio, col fragor di calde

precipitose rote, e il calpestío

di volanti corsier, lunge agitasti

il queto aere notturno, e le tenèbre

con fiaccole superbe intorno apristi,

siccome allor che il Siculo terreno

dall’uno all’altro mar rimbombar féo

Pluto col carro a cui splendeano innanzi

le tede de le Furie anguicrinite.[106]

O sarà infine il caso dell’apertura del Mezzogiorno, in cui la funzione di contrasto di illustri ricordi mitologico-poetici con la frivola realtà umana di cui il Parini si elegge «umil cantore» e pedagogo ironico approfondisce al di là della grazia – non contro di essa – l’arricchimento poetico ricavato appunto dal mondo poetico della mitologia classica, riuscendo a far vibrare una delle note piú profonde e dolenti della poesia pariniana nell’evocazione dell’episodio virgiliano dell’innamoramento di Didone durante il pranzo offerto ad Enea e allietato dal canto di Jopa:

Tal fra le tazze e i coronati vini,

onde all’ospite suo fe’ lieta pompa

la Punica Regina, i canti alzava

Jopa crinito: e la Regina intanto

da’ begli occhi stranieri iva beendo

l’oblivion del misero Sichèo.[107]

Già in questi brani è chiaro, del resto, come il livello della rappresentazione sensuosa e perspicua di oggetti, azioni, scene non sia chiuso in se stesso né rappresenti di per sé la mèta della poetica del Giorno: ché anzi, se troppo isolato, esso mostra tanto piú certi limiti generali di quella poetica e di quella poesia, alla fine monotona e stucchevole a causa di quella succulenta e preziosa efficacia di evidenza sensibile ed elegante, di quell’impegno artistico insistito e inappuntabile. Infatti la spinta interna dell’intento polemico, nelle sue forme ironico-satiriche, anima e investe quella stessa prospettiva e capacità di descrizione sensistico-classicistica e ne movimenta e organizza le offerte e i risultati a maggiori livelli di complessità e di forza poetica.

Cosí come le stesse forme ironiche e satiriche si graduano fra livelli ed esiti minori di capacità caricaturale e macchiettistica (che pure hanno una loro funzione nella economia e varietà del Giorno) e prestazioni e risultati piú fusi ed armonici.

Sul piano inferiore potranno porsi caricature e macchiette sul tipo di quella del giovin signore che è invitato dal poeta-pedagogo a mettersi in posa per presentarsi degnamente alla dama di cui è cavalier servente:

Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera

si dispongan tue grazie; e a la tua Dama

quanto elegante esser piú puoi ti mostra.

Tengasi al fianco la sinistra mano

sotto il breve giubbon celata; e l’altra

sul finissimo lin posi, e s’asconda

vicino al cor: sublime alzisi ’l petto,

sorgan gli omeri entrambi, e verso lei

piega il duttile collo; ai lati stringi

le labbra un poco; ver lo mezzo acute

rendile alquanto, e da la bocca poi

compendiata in guisa tal sen esca

un non inteso mormorío.[108]

Ad un livello maggiore di fusione, di movimento ironico, di armonia di scena, si pongono passi come quello delle dame in carrozza durante il corso dei cocchi:

Il lor ventaglio

irrequieto sempre or quinci or quindi

con variata eloquenza esce e saluta.

Convolgonsi le belle: or su l’un fianco

or su l’altro si posano tentennano

volteggiano si rizzan, sul cuscino

ricadono pesanti, e la lor voce

acuta scorre d’uno in altro cocchio.[109]

O la macchietta rigida e apertamente buffa del maestro di ballo:

Egli all’entrar si fermi

ritto sul limitare, indi elevando

ambe le spalle, qual testudo il collo

contragga alquanto; e ad un medesimo tempo

inchini ’l mento, e con l’estrema falda

del piumato cappello il labbro tocchi.[110]

O la scena del giovin signore che, mentre beve la cioccolata o il caffè, conversa con i suoi protetti, e l’ironia e la satira convergono in una rapida e fusa evocazione di vita settecentesca:

Or te questa, o Signor, leggiadra schiera

trattenga al novo giorno; e di tue voglie

irresolute ancora or l’uno, or l’altro

con piacevoli detti il vano occúpi,

mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi

dell’ardente bevanda a qual cantore

nel vicin verno si darà la palma

sopra le scene; e s’egli è il ver, che rieda

l’astuta Frine che ben cento folli

Milordi rimandò nudi al Tamigi;

o se il brillante danzator Narcisso

tornerà pure ad agghiacciare i petti

de’ palpitanti Italici mariti.[111]

Dal tessuto vario e denso delle due prime parti del Giorno, dalla generale pressione poetica cosí ricca di livelli espressivi ed artistici, cosí sfaccettata nelle diverse forme di rappresentazione satirica, ironica, parodistica, polemica, descrittiva delle apparenze eleganti, delle «amene sembianze», della realtà attediata e frivola del «bel mondo» aristocratico, di una vera realtà affettuosamente ed energicamente rilevata a contrasto, di un mondo concreto e ideale costituito dalla vita dei lavoratori in contatto autentico con la feconda sanità naturale, si innalzano come punti alti e sintetici della poesia del Giorno, come culmini della centrale tensione poetica pariniana, alcuni episodi esemplari, che pur raccolgono e coordinano come ad un fine ed esito piú alti tanti moduli ed elementi altrove provati e attuati entro angolazioni piú ristrette e a livelli minori e piú parziali.

In questi episodi si attua la spinta poetica piú profonda del Giorno, che altrove circola in forme meno intense ed intere, si esprime piú compiutamente l’animus indignato, offeso ed energico del poeta illuministico, del poeta che sa di combattere una decisa battaglia contro disvalori e miti e costumi che qui rivelano tanto meglio il fondo disumano, spietato delle loro frivole e caricaturabili apparenze.

Ma quello sdegno, quell’affermazione energica e persuasa di supremi valori umani e civili (base di ogni vera nuova società e di ogni vera nuova cultura) non si esprimono in forme nude e schematiche (come spesso avviene nelle prime Odi) e acquistano una risonanza tanto maggiore – e a volte persino dolente e straziata – proprio perché il poeta li fa esplodere al sommo di una rappresentazione morbida ed elegante, dall’interno di un episodio organicamente costruito con tutte le risorse e i toni della sua arte, con tutte le sfumature delle sue componenti classicistiche, sensistiche, rococò. Sarà il caso della grande favola del Piacere (motivo e mito essenziale della Weltanschauung e della poesia pariniana) aperta in un tono elegante e suadente di flautata ironia. In quella favola il poeta dell’illuminismo ribadisce saldamente l’origine egualitaria degli uomini, la natura comune dei loro istinti e bisogni che dalla fuga del dolore li condusse al desiderio del piacere, specie nella sua forma piú vitale e comune del piacere sessuale, per poi – attraverso la sensuosa e morbida ironica satira della «divina» distinzione degli uomini in due classi (quella formatasi alla fruizione dei piú sottili e preziosi piaceri voluttuosi e quella rimasta allo stadio di una sensibilità rozza e sommaria, ma in realtà autentica, schietta e suscettibile di una diversa educazione) – giungere alla indignata designazione della «spregiata plebe» condannata alla fatica e alla legge del bisogno:

Forse vero non è; ma un giorno è fama,

che fur gli uomini eguali; e ignoti nomi

fur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al bere,

all’accoppiarsi d’ambo i sessi, al sonno

un istinto medesmo, un’egual forza

sospingeva gli umani: e niun consiglio,

niuna scelta d’obbietti o lochi o tempi

era lor conceduta. A un rivo stesso,

a un medesimo frutto, a una stess’ombra

convenivano insieme i primi padri

del tuo sangue, o Signore, e i primi padri

de la plebe spregiata. I medesm’antri,

il medesimo suolo offrieno loro

il riposo, e l’albergo; e a le lor membra

i medesmi animai le irsute vesti.

Sol’ una cura a tutti era comune,

di sfuggire il dolore, e ignota cosa

era il desire agli uman petti ancora.

L’uniforme degli uomini sembianza

spiacque a’ Celesti: e a variar la Terra

fu spedito il Piacer. Quale già i numi

d’Ilio sui campi, tal l’amico Genio,

lieve lieve per l’aere labendo

s’avvicina a la Terra; e questa ride

di riso ancor non conosciuto. Ei move,

e l’aura estiva del cadente rivo,

e dei clivi odorosi a lui blandisce

le vaghe membra, e lentamente sdrucciola

sul tondeggiar dei muscoli gentile.

Gli s’aggiran d’intorno i Vezzi e i Giochi,

e come ambrosia, le lusinghe scorrongli

da le fraghe del labbro: e da le luci

socchiuse, languidette, umide fuori

di tremulo fulgore escon scintille

ond’arde l’aere che scendendo ei varca.

Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra,

sua prim’orma stamparsi; e tosto un lento

fremere soavissimo si sparse

di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte

di natura le viscere commosse:

come nell’arsa state il tuono s’ode

che di lontano mormorando viene;

e col profondo suon di monte in monte

sorge; e la valle, e la foresta intorno

mugon del fragoroso alto rimbombo,

finché poi cade la feconda pioggia

che gli uomini e le fere e i fiori e l’erbe

ravviva riconforta allegra e abbella.

Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo

viventi a cui con miglior man Titano

formò gli organi illustri, e meglio tese,

e di fluido agilissimo inondolli!

Voi l’ignoto solletico sentiste

del celeste motore. In voi ben tosto

le voglie fermentàr, nacque il desio.

Voi primieri scopriste il buono, il meglio;

e con foga dolcissima correste

a possederli. Allor quel de’ due sessi,

che necessario in prima era soltanto,

d’amabile, e di bello il nome ottenne.

Al giudizio di Paride voi deste

il primo esempio: tra feminei volti

a distinguer s’apprese; e voi sentiste

primamente le grazie. A voi tra mille

sapor fur noti i piú soavi: allora

fu il vin preposto all’onda; e il vin s’elesse

figlio de’ tralci piú riarsi, e posti

a piú fervido sol, ne’ piú sublimi

colli dove piú zolfo il suolo impingua.

Cosí l’Uom si divise: e fu il Signore

dai Volgari distinto a cui nel seno

troppo languír l’ebeti fibre, inette

a rimbalzar sotto i soavi colpi

de la nova cagione onde fur tocche:

e quasi bovi, al suol curvati ancora

dinanzi al pungol del bisogno andàro;

e tra la servitute, e la viltade,

e ’l travaglio, e l’inopia a viver nati,

ebber nome di Plebe. Or tu Signore

che feltrato per mille invitte reni

sangue racchiudi, poiché in altra etade

arte, forza, o fortuna i padri tuoi

grandi rendette, poiché il tempo alfine

lor divisi tesori in te raccolse,

del tuo senso gioisci, a te dai numi

concessa parte: e l’umil vulgo intanto

dell’industria donato, ora ministri

a te i piaceri tuoi nato a recarli

su la mensa real, non a gioirne.[112]

O sarà il caso di due episodi condotti ancor piú energicamente al loro esito di forza indignata e dolente. Uno è quello che chiude significativamente il Mattino siglandone il senso piú vero e aggressivo con la rappresentazione lucida e ironica della uscita in carrozza del giovin signore dopo i laboriosi preparativi della sua toletta e con il quadro allucinante del plebeo investito e travolto dalla carrozza signorile e dal suo cocchiere impaziente e superiore ad ogni possibile sanzione penale:

Intanto addio

degli uomini delizia, e di tua stirpe,

e de la patria tua gloria e sostegno.

Ecco che umili in bipartita schiera

t’accolgono i tuoi servi: altri già pronto

via se ne corre ad annunciare al mondo,

che tu vieni a bearlo; altri a le braccia

timido ti sostien mentre il dorato

cocchio tu sali, e tacito, e severo

sur un canto ti sdrai. Apriti o vulgo,

e cedi il passo al trono ove s’asside

il mio Signore: ahi te meschin s’ei perde

un sol per te de’ preziosi istanti.

Temi ’l non mai da legge, o verga, o fune

domabile cocchier, temi le rote,

che già piú volte le tue membra in giro

avvolser seco, e del tuo impuro sangue

corser macchiate, e il suol di lunga striscia,

spettacol miserabile! segnàro.[113]

L’altro, giustamente famoso e suscettibile di uno di quei minuti commenti che competono alla vera poesia, è quello della «vergine cuccia» che raccoglie, al centro della scena del pranzo del Mezzogiorno, le note piú intense del contrasto fra vera socievolezza, vera cultura, vera umanità, e frivolezza, volgare e superficiale snobismo, perversione libertina dei grandi motivi della nuova cultura, che si spargono nel lungo contesto dei discorsi conviviali del «Bel Mondo». Fra questi è quello del vegetariano alla moda (la moda di una sensiblerie snobistica, alibi di una arida spietatezza disumana[114]) che perora, parodiando moduli classici di deprecazione, contro l’uccisione di una «innocente agnella» e provoca cosí l’intenerimento e il pianto della dama del giovin signore al ricordo dell’offesa patita dalla sua «vergine cuccia» ad opera di un servo.

Or le sovviene il giorno,

ahi fero giorno! allor che la sua bella

vergine cuccia de le Grazie alunna,

giovenilmente vezzeggiando, il piede

villan del servo con l’eburneo dente

segnò di lieve nota: ed egli audace

con sacrilego piè lanciolla: e quella

tre volte rotolò; tre volte scosse

gli scompigliati peli, e da le molli

nari soffiò la polvere rodente.

Indi i gemiti alzando: aita aita

parea dicesse; e da le aurate volte

a lei l’impietosita Eco rispose:

e dagl’infimi chiostri i mesti servi

asceser tutti; e da le somme stanze

le damigelle pallide tremanti

pricipitàro. Accorse ognuno; il volto

fu spruzzato d’essenze a la tua Dama;

ella rinvenne alfin: l’ira, il dolore

l’agitavano ancor; fulminei sguardi

gettò sul servo, e con languida voce

chiamò tre volte la sua cuccia: e questa

al sen le corse; in suo tenor vendetta

chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,

vergine cuccia de le Grazie alunna.

L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo

udí la sua condanna. A lui non valse

merito quadrilustre; a lui non valse

zelo d’arcani uficj: in van per lui

fu pregato e promesso; ei nudo andonne

dell’assisa spogliato ond’era un giorno

venerabile al vulgo. In van novello

signor sperò; ché le pietose dame

inorridíro, e del misfatto atroce

odiàr l’autore. Il misero si giacque

con la squallida prole, e con la nuda

consorte a lato su la via spargendo

al passeggiere inutile lamento:

e tu vergine cuccia, idol placato

da le vittime umane, isti superba.[115]

Qui tutte le qualità e le risorse dell’arte pariniana entrano in azione e sono adibite ad una progressione sicura ed organica di poesia.

Prima l’avvio sospiroso ed ironico nel ricordo languido della dama, cadenzato dalla ripetizione ad inciso nostalgico («il giorno / ahi fero giorno!»), la descrizione dello scelus del servo tutta alleggerita e approfondita insieme dal tono sacro-ironico, epico-parodistico e dalla commisurata fusione della sensuosa realtà del fatto e della sua ironica nobilitazione classicistica («de le Grazie alunna», «sacrilego piè», «tre volte rotolò, tre volte scosse», «e da le molli / nari soffiò la polvere rodente»). Poi sul passaggio dell’onomatopea classicistico-sensistica («Aita, aita», che traduce con aristocratico sorriso il «caí, caí» della cagnolina) l’aprirsi intorno dello sfondo del palazzo nobiliare attraverso l’ampliarsi del guaito nell’eco «impietosita» che lo ripercuote fino alle «aurate volte», e il doppio movimento trepidante e impaurito, dal basso e dall’alto, dei «mesti servi» e delle «damigelle pallide, tremanti» in cui risalta la capacità figurativo-cinematica dell’artista e il sobrio ricavo del suo gusto di pittore classicistico-rococò esaltato nelle volúte del movimento e nell’impasto di sensibilità descrittiva e di rotto, accelerato ritmo di falsa drammaticità della scenetta dello svenimento della damina, dell’affaccendarsi dei servi e delle cameriere intorno a lei, del suo patetico colloquio con la cagnetta.

Ma a questo punto il falso dramma si converte senza sforzo nel vero dramma dell’«empio» servo e lentamente le note ironiche («empio servo», «misfatto atroce») si sciolgono in un tono di altissima severità che recupera, al fondo, come in un refrain di tono capovolto, e perciò tanto piú intenso, le forme iniziali della designazione classicistica, del tono falso ieratico, trasformando l’ironia iniziale in una indignatio etico-poetica di profonda risonanza.

Infine dovrà venir ben rilevato, su questo piano alto di risultati poetici interi e rappresentativi della maggiore poesia del Giorno, il passo del Mattino in cui dalla descrizione della prima colazione del «giovin signore» e delle bevande offerte e illustrate a sollecitare il suo svogliato appetito il poeta passa ad esprimere il suo sdegno umanitario illuministico nei confronti dei conquistadores e della loro spietata opera di distruzione e di morte nell’America centrale e meridionale, nel contrasto fra imprese faticose e grandiose, ma alla fine barbare e disumane, e la futilità dell’uso voluttuario che dei frutti di tali imprese vien fatto dalla classe nobiliare:

Ma già il ben pettinato entrar di novo

tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede

quale oggi piú de le bevande usate

sorbir ti piaccia in preziosa tazza:

Indiche merci son tazze e bevande;

scegli qual piú desii. S’oggi ti giova

porger dolci allo stomaco fomenti,

sí che con legge il natural calore

v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,

scegli il brun cioccolatte, onde tributo

ti dà il Guatimalese e il Caribbèo

c’ha di barbare penne avvolto il crine:

ma se nojosa ipocondria t’opprime,

o troppo intorno a le vezzose membra

adipe cresce, de’ tuoi labbri onora

la nettarea bevanda ove abbronzato

fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo

giunto, e da Moca che di mille navi

popolata mai sempre insuperbisce.

Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio

uscisse un Regno, e con ardite vele

fra straniere procelle e novi mostri

e teme e rischi ed inumane fami

superasse i confin, per lunga etade

inviolati ancora: e ben fu dritto

se Cortes, e Pizzarro umano sangue

non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno

scorrea le umane membra, onde tonando

e fulminando, alfin spietatamente

balzaron giú da’ loro aviti troni

re Messicani e generosi Incassi,

poiché nuove cosí venner delizie,

o gemma de gli eroi, al tuo palato.[116]

Anche qui tutto è misurato da una mano sapiente, delicata ed energica, che lavora sulla densa tensione di un generoso e saldo sdegno poetico assicurandone la graduata e continua espressione, il movimento inizialmente sinuoso ed ironico, realizzato con il metodo classicistico-sensistico della pregnante e nobilitante sensuosità e mosso dall’ironia, dalla satira parodistica, screziato in rapide definizioni e descrizioni epico-pittoresche nel suono esotico-classico, prezioso-rapsodico, e poi lo sgorgo piú diretto e, nella sua misurata pacatezza e costanza di linguaggio, fremente e addolorato, incupito e severo nella ripetizione di parole essenziali («umano sangue», «umane membra»), nell’accentuazione sonora ed energetica delle azioni violente di sterminio («tonando / e fulminando», «spietatamente / balzaron giú...») rafforzata dal rilievo dell’enjambement.

Dall’altezza di simili passi meglio si misura la forza e l’originalità e la pregnanza storica dell’operazione poetica del Giorno specie nelle sue prime due parti. Parini vi si afferma come vero «poeta» dell’illuminismo italiano e oseremmo dire anche dell’illuminismo europeo, se pensiamo alla differenza di nuovo livello e di maggiore pressione poetica che par di dover porre fra lui e lo stesso Alexander Pope cui egli fu paragonato e assimilato dal Baretti, che lo chiamò «il Pope italiano».

Riveduti nella loro interezza e nell’organico raccordo dei loro livelli e toni artistici i due poemetti del ’63-65 costituiscono un’opera poetica che, anche senza la sua continuazione piú tarda nelle due ultime parti del Giorno (continuazione, come vedremo, della fondamentale prospettiva dei due primi poemetti, ma caratterizzata dalla incidenza del successivo sviluppo etico-estetico, che indusse il Parini a rivedere e correggere il testo degli stessi primi poemetti), ha un suo eccezionale rilievo nella letteratura di metà Settecento e nella sintetica espressione poetica delle esigenze e idealità dell’illuminismo italiano.

Frutto di un’arte matura e complessa, essi hanno una fortissima vitalità e resistenza poetica, rappresentano il maggiore sforzo di varietà e organicità della fantasia pariniana, anche se son pur visibili in essi i limiti poetici innegabili sia in una generale prospettiva delle possibilità e dei valori della poesia (certa stucchevolezza e sazietà della rappresentazione sensistico-classicistica, certa minore elasticità nel generale percorso narrativo-poematico, certa monotonia del figurino del giovin signore), sia nello stesso svolgimento della poetica e della poesia pariniana che, come vedremo, dopo la prima redazione dei due poemetti cerca vie di espressione meno incisive e preziose e, nel complesso concorso di una poetica intonata alle forme piú profonde del neoclassicismo e di una prospettiva civile e sentimentale meno aggressiva, ma non perciò meno persuasa e profonda, salirà, nell’ultima fase delle odi, a risultati poetici ancora piú convincenti e totali.

6. Lo svolgimento della poetica pariniana in direzione neoclassica: le nuove «Odi»

Nella ripresa delle Odi, dopo la pubblicazione delle due prime parti del Giorno e la piú lenta continuazione del poema dopo l’inizio della Sera che, nelle intenzioni del poeta in quel periodo, avrebbe dovuto costituirne la terza ed ultima parte, si profila lentamente uno sviluppo della poetica pariniana che – senza brusche e drammatiche rotture, ma con sempre piú chiara e consistente direzione di gusto e di generale animus etico-politico – viene procedendo verso forme ideative, immaginative, costruttive, sempre piú spaziate, distese, armoniche, verso un tipo di sensibilità «nobile e semplice» (la edle Einfalt di tipo neoclassico), verso una prospettiva celebrativa, e pur tutt’altro che enfatica, dei valori positivi della matura spiritualità pariniana (saggezza, equilibrio, civile rapporto di persone illuminate ed elette nelle forme della neoclassica stille Grösse: tranquilla e serena grandezza), che lentamente abbandona, o riduce in maniera piú pacata e smussata, l’aggressività delle prime odi o l’uso dell’ironia e satira dei due primi poemetti del Giorno, smorzando insieme le tinte troppo vivaci, l’impegno troppo pungente ed icastico del discorso poetico, il rilievo piú minuto e particolareggiato della poetica classicistico-sensistica.

In questo sviluppo di poetica è ben percepibile l’incidenza del nuovo gusto neoclassico nelle sue formulazioni teoriche e nelle sue applicazioni figurative[117].

Specie dopo la pubblicazione della Storia del Winckelmann (tradotta in italiano proprio a Milano nel 1779), i principii del Winckelmann e del Mengs, favoriti dai fermenti classicistici precisati nell’eclettismo romano, si erano diffusi rapidamente nell’Italia settentrionale e, quando nel 1776 fu aperta a Milano l’Accademia di belle arti di Brera, il Parini, quale professore in quell’accademia di eloquenza e belle lettere, si trovò a diretto contatto con artisti neoclassici come Traballesi, Franchi, Albertolli, Knoller, Piermarini, Appiani. E con molti di loro collaborò come scrittore di progetti per teloni di teatro (quello della Scala del 1778, o del teatro di Novara), per soffitti, per decorazioni nel Palazzo Reale (l’Apoteosi di Giasone e l’Aurora dello Knoller, il Giove tonante del Monticelli, i Riposi di Giove, Amore e Psiche, il Trionfo di Igea del Traballesi) e in altri palazzi in cui il gusto neoclassico faceva la sua prova integrale di grandezza, nobiltà, semplicità, venata, specie nella pittura, da quegli elementi di grazia che non mancano certo nello stesso Winckelmann, ammiratore del Gessner, vibrante di tenerezze arcadiche e rococò.

E cosí una prova, esterna alla poesia, ma assai importante, della nuova direzione del gusto pariniano posteriore alle prime Odi e alle due prime parti del Giorno, è costituita da quei soggetti per teloni, quadri e decorazioni che vanno sotto il nome di «programmi di belle arti» e rappresentano l’adesione del Parini al canone neoclassico del letterato che prepara soggetti per il pittore e piú generalmente alle tendenze del neoclassicismo figurativo negli ideali di proporzione ed ordine, di semplificazione essenziale, di centralità delle figure umane divinizzate[118], della serenità, della Unbestimmung, di incontro fra allegoria e moralità nel senso del Versuch einer Allegorie del teorico tedesco.

Le figure essenziali di Giove («il piú bello dio che si possa, di forme grandi, con una maestà e spezie di riposo anco fra l’ira»), di Apollo («sarà pieno d’entusiasmo bensí: ma di quello che nasce dai piú intimi sentimenti del cuore, anziché dalla riscaldata fantasia. Però l’attitudine e l’espressione di lui sarà franca ed ardita, ma senza troppo grande alterazione di moti»), indicate al pittore per i teloni della Scala o del teatro di Novara e per altri soggetti decorativi, sono chiari riflessi di precise figure della Storia del Winckelmann e dei princípi della bellezza ideale, della «grazia sublime» che esclude ogni sdegno troppo vivace, ogni espressione realistica, ogni gusto del grottesco[119] e del deforme, per cui l’armonia etico-estetica, la kalokagathía si sostituisce all’edonismo vivace del classicismo rococò e all’utile dulci dell’illuminismo.

Questi «programmi» rispondono, ripeto, al principio neoclassico del poeta che deve suggerire immagini al pittore ed è esplicita in proposito la testimonianza del sonetto del ’93 all’Appiani che propone un soggetto suggerito nelle sue linee essenziali all’esecuzione del pittore:

Fingi un’ara, o pittor. Viva e festosa

fiamma sopra di lei s’innalzi e strida:

e l’un dell’altro degni, e sposo e sposa,

qui congiungan le palme; e il genio arrida.

Sorga Imeneo tra loro; e giglio e rosa

cinga loro a le chiome. Amor si assida

sulla faretra; e mentre l’arco ei posa

i bei nomi col dardo all’ara incida.[120]

E ancora nel discorso inaugurale del corso di belle lettere il Parini parla dell’«alleanza» fra artisti e letterati:

L’unità, per esempio, la varietà, la simmetria, la chiarezza, la verità, la sublimità, l’espressione, che sono principii del poeta e dell’oratore, il sono a un tempo medesimo del musico, del dipintore, dello scultore, dell’architetto; e quindi è che gli eccellenti esemplari, i quali perciò appunto sono eccellenti perché sono fatti dietro a questi principii, hanno una comune alleanza fra essi, nel modo che, per la stessa ragione, i dipintori, gli scultori, gli architetti, i musici, i poeti, gli scrittori eccellenti, anche nel cotidiano uso della vita, conversano agevolmente e volentieri stringono amicizia insieme, e si comunicano i loro pensieri sopra le rispettive arti loro, e contraggono somiglianti costumi e maniere. Non è adunque da dubitare che gli eccellenti esemplari della pittura e della scultura, non solo vagliano di stimolo e d’istruzione al dipintore ed allo scultore, ma che infiammino eziandio bene spesso il poeta e lo scrittore, e gli giovino a divenir piú valente nell’arte sua.[121]

Queste esperienze winckelmanniane influenzarono certamente, in senso neoclassico, le nuove odi del Parini, come poi si potranno notare nella ripresa del Giorno i segni di una crescente applicazione di princípi neoclassici e il successivo alleggerimento di forme sensisticamente piú dense verso una linearità piú sottile, una musica piú distesa.

Ora, nelle Odi, mentre cresce il gusto figurativo per immagini nitide e classiche (già vivo nel Parini precedente: e si pensi almeno al quadretto mitologico finale dell’Educazione che il Carducci chiamò «gemma greca», ma che si inscrive ancora piuttosto in un tipo di figuratività «ercolanense»[122] piú che veramente neoclassica), si precisa la poetica neoclassica nella esigenza di una costruzione piú ampia, di suoni meno brillanti, di un impegno utilitaristico meno puntuale. Già nella Laurea (1777), nel movimento celebrativo in cui il tema illuministico è come temperato e innalzato – non eliminato – in un’aria di mito, un nuovo gusto di costruzione si sostituisce al gusto di ritmo combattivo della Salubrità e del Bisogno:

Quell’ospite è gentil che tiene ascoso

ai molti bevitori

entro ai dogli paterni il vino annoso

frutto de’ suoi sudori;

e liberale allora

sul desco il reca di bei fiori adorno,

quando i Lari di lui ridenti intorno

degno straniere onora:

e versata in cristalli empie la stanza

insolita di Bacco alma fragranza.[123]

La presenza di Pindaro, esplicitamente confermata alla fine dell’ode («Pindaro lo seguia con gl’inni alati»), collabora al nuovo ideale di poesia celebrativa, solenne e richiedente uno stato d’animo particolare di serenità, di distacco, di sogno antico; quello stato d’animo che nella Recita dei versi (1783) trova esemplare espressione in quei versi che postulano una speciale condizione etico-estetica per l’esercizio e la fruizione della poesia:

Orecchio ama placato

la Musa, e mente arguta e cor gentile.[124]

Ascoltatori di poesie e poeti devono essere lontani da passioni torbide, da tensioni impure e dalla viziosa ricerca di toni clamorosi o troppo brillanti. E prima di tutto è richiesta un’attenzione sobria e casta ai valori della vita e della poesia: quel «retto e bello» a cui l’uomo è creato adatto dai «Numi» e in cui la formula della Salubrità («utile» e «lusinghevol canto») si trasforma con preciso valore indicativo.

Il classicismo illuministico aveva sentito (fra Algarotti, «util poeta», e Parini del primo periodo) l’utile dulci oraziano nel suo senso piú utilitaristico e appariscente: utilità di cognizioni, di lotta contro le tenebre dell’ignoranza, dolcezza di poesia amabile, preziosa, brillante, ricca di fascino sensibile.

Il neoclassicismo maturo, invece, e tanto piú fortemente il Parini in questa nuova fase del suo gusto e della sua poesia, sentono la vecchia formula «vero e bello» nel senso piú vasto e mitico, con chiaro predominio del bello come perfetto, armonico, e del vero come altamente umano e civile senza un riferimento immediato a «utili verità», a polemiche aperte, del tipo di quella sostenuta nella Salubrità.

Didascalismo piú distaccato, meno immediatamente pragmatico e utilitaristico e certamente piú in senso di alta, severa moralità allo stesso modo che l’edonismo di metà Settecento si svolge in contemplazione di bellezza e ideale.

Si intenda bene: non è che il Parini in questa nuova fase della sua attività abbia abbandonato i suoi ideali civili o rinnegato il suo sostanziale credo sensistico-razionalistico. Non mancano prove anche esterne della sua fedeltà ai suoi ideali umani, al suo senso della civiltà, alla sua antipatia per forme di conformismo o di abbandono della responsabilità del cittadino: e si pensi subito alla Caduta (1785) che, dopo la rappresentazione della vicenda esemplare (la caduta del vecchio poeta a causa del suo piede infermo, e il dialogo fra lui e il personaggio interprete di una morale corrente che invita a farsi conformista e caro ai potenti, con arti adulatorie e abilità diplomatiche, trovando il modo di indicare con note sobrie e vigorose la «tetra noia» dei grandi, i «bassi genii dietro al fasto occulti», il «muto aere» dove «il destin de’ popoli si cova»), culmina nella proclamazione di una ideale figura del «buon cittadino» con cui il poeta, si badi bene, si identifica quanto a doveri fondamentali di fronte alla «patria», alla civitas concreta:

Buon cittadino, al segno

dove natura e i primi

casi ordinar, lo ingegno

guida cosí che lui la patria estimi.

Quando poi d’età carco

il bisogno lo stringe,

chiede opportuno e parco

con fronte liberal che l’alma pinge.

E se i duri mortali

a lui voltano il tergo,

ei si fa, contro a i mali,

de la costanza sua scudo ed usbergo.

Né si abbassa per duolo,

né s’alza per orgoglio.[125]

Dove l’alta moralità pariniana, fondata anzitutto sul sentimento severo e stoico della dignità personale (impiegato però concretamente in opere e atteggiamenti a favore della collettività ed educativi per quella), trova un’ulteriore espressione di equilibrio e saggezza supremi: «né si abbassa per duolo, né s’alza per orgoglio». Tanto che il Leopardi, che volle fare del Parini il portavoce magnanimo dei suoi ideali etico-estetici nell’omonima operetta morale (Il Parini ovvero della gloria), nella Ginestra pur riprenderà, con tanto diversa forza e novità, questa severa lezione pariniana nella proposta dell’uomo in generale né superbo né vile di fronte alla coscienza della sua situazione e di fronte alla nemica natura[126].

Sicché, a ben vedere, anche la nuova poesia pariniana si incentra sempre in un vigoroso ideale morale-civile fortemente fondato sui doveri e le qualità dell’individuo, membro di una civitas che ben si considera tale, ma che insieme sempre piú sente come la sua collaborazione e partecipazione civile presupponga forti e maturate qualità personali sino all’esercizio della dignità e della costanza contro i casi avversi e l’eventuale spietatezza dei «duri mortali».

Non perciò amaro e ritroso gusto di solitudine, ma senso virile di una società in cui il singolo deve anzitutto contare su se stesso e sulla sua coscienza, sulla sua dignità: senza le quali, d’altra parte, ogni società avrebbe fondamenti fragili ed esposti ai capricci e agli errori della fortuna e degli stessi governi. Come si può dedurre dall’ode La tempesta (1786) che, oscuramente alludendo a provvedimenti del governo giuseppino, propone ancora una volta le «leggi sante» della Natura «in suo voler costante».

Non si può dunque demandare tutto ai governi e ai principi illuminati. Il cittadino e il saggio devono conservare la loro libertà di giudizio e di comportamento senza con ciò rifiutare la loro collaborazione al potere, ma riservandosi di sospenderla qualora quello agisca in maniera dissennata e contraria alla ragione e alla natura: che è poi la chiave dell’atteggiamento del Parini di fronte al governo democratico della Repubblica cisalpina e alla municipalità milanese di cui egli fece parte, allontanandosene poi quando la prepotenza dei francesi e la politica vessatoria del Direttorio provocò una situazione quale la dipinse il Foscolo nell’Ortis e che poté spingere il Parini a scrivere il noto sonetto per il ritorno degli austriaci a Milano.

Ma anzi si deve bene intendere che questo sviluppo della poetica pariniana in direzione neoclassica non deriva solo da movimenti e mutamenti del gusto, della tecnica artistica, delle prospettive letterarie maturatesi anche in attrito polemico – come vedremo – con le nuove tendenze preromantiche, ma trova (come sempre avviene nei veri poeti) le sue motivazioni interne in una progressiva e lenta maturazione ed evoluzione dell’intera prospettiva morale e intellettuale del Parini a sua volta soggetta – in un nesso duttile e non schematizzabile in rigidi rapporti di «contenuto» e «forma» – alle incidenze e alle sollecitazioni storiche, culturali ed estetiche e concretamente attiva nell’esercizio immaginativo o creativo.

Nella stessa storia dell’illuminismo lombardo è dato cogliere, dopo gli entusiasmi e le speranze degli anni ’60-65 (a cui il Parini collaborò, da poeta e da riformista, con le prime Odi e le prime parti del Giorno), un intreccio piú difficile di applicazioni pratiche della cultura all’opera minuta e burocratica del governo austriaco, di collaborazione e di critica ai programmi del rigido riformismo giuseppino (e poi della meno decisa epoca leopoldina), specie in quel settore piú moderato cui il Parini appartiene e in cui si profilano anche maggiori esigenze di autonomia e di reazione locale, inquietudini ed amarezze o di fronte a riforme troppo rigide e radicali o a remore e a sviamenti dalla linea riformistica prudente e concreta impostata dal Kaunitz e dal Firmian.

Si pensi almeno al caso del Beccaria che dalla posizione piú entusiastica del Dei delitti e delle pene e della collaborazione al «Caffè» verrà passando ad un’attività piú concreta, ma meno ideologicamente aggressiva nell’esercizio della sua funzione, pur cosí importante e lucida, di estensore delle «consulte», quale consigliere e burocrate del governo lombardo-austriaco.

Quanto al Parini, e ben tenendo presente sempre la sua fondamentale posizione di moderato e di riformista gradualistico e prudente, egli venne portando avanti la sua persuasa volontà di riforma e mantenne chiaramente la sua prospettiva illuministica, la sua fiducia nell’opera congiunta di natura e ragione, e appoggiò al centro l’attività di Giuseppe II nella sua opera di sradicamento di pregiudizi e di residui feudali, come ben chiarisce il sonetto del 1784 per la venuta a Milano dell’imperatore, che esalta soprattutto la fondazione dell’«util comune» e sostiene la lotta per l’incremento della libertà della cultura e dell’educazione e quella per l’abolizione delle tasse feudali e della servitú della gleba («or la mente ora il piè liberi rende»):

Scorre Cesare il mondo, e tutto ei splende

sol d’egregia virtude, e il fasto sdegna;

e fra i popoli avvolto il vero apprende,

e dall’alto dei troni il giusto insegna.

Indi a stranio poter limiti segna;

qui delle genti la ragion difende;

e all’oppresso mortal da forza indegna

or la mente ora il piè liberi rende.

Toglie a la frode e all’ignoranza il velo;

fonda l’util comune; e ovunque ei giri

veglia, suda, contende, arde di zelo;

e fa che il mondo in lui rinati ammiri

quei che la prisca età pose nel cielo:

Teseo, Alcide, Giason, Bacco ed Osiri.[127]

Ma insieme può criticarne nella Tempesta certi provvedimenti economici come eccessivi e soprattutto affrettati e indiscriminati mentre, d’altra parte, può giustificare, nella piú avanti ampiamente citata epistola al De Martini, le esitazioni nella continuazione del Giorno come effetto della sua convinzione di aver già abbastanza prevenuto e agevolato l’opera riformatrice governativa con le prime due parti del poema, compiacendosi di una già avvenuta «educazione» di giovani nobili ai nuovi ideali di attività e di contributo all’utile comune. Sí che solo tanto piú tardi – e proprio nell’epoca leopoldina e nel riaffiorare di maggiori resistenze conservatrici di fronte ai pericoli dell’estendersi della rivoluzione francese – egli sentirà pure il bisogno, non solo di artista, di riprendere e completare il Giorno in una prospettiva artistica piú legata alla sua nuova poetica e in una ancor maggiore misura di posizioni in cui egli sembra ormai piú chiaramente associare a se stesso – nella satira di un mondo duro a morire e sempre piú ingiustificato e antistorico – la voce dei giovani nobili, come il D’Adda o l’Imbonati, da lui educati e ben capaci di deridere e giudicare con severità piú distaccata il bel mondo frivolo e sciocco.

Cosí l’evoluzione tarda del Parini non è certo abbandono dei suoi saldi ideali illuministico-riformistici, ma riduzione della loro affermazione piú aggressiva e trasferimento in un tono dell’animo piú saggio e severamente distaccato, in una loro profonda illuminazione vigorosa (si pensi alla Caduta), ma insieme come piú calma e positiva, entro la consonanza sicura con amici ed allievi fedeli e partecipi della sua prospettiva ideale, e dunque non semplicemente «isolato» e in una curva involutiva come è apparso a qualche studioso[128].

Sicché gli stessi atteggiamenti di severa condanna degli elementi di turbamento e di corruzione nella nuova civiltà (la diagnosi potente della genesi della corruzione femminile in A Silvia, il quadro energico dei rapporti fra i potenti e i loro cortigiani nella Caduta) assumono ora un tono insieme piú solenne e piú distaccato, mentre gli ideali della fervida fede pariniana vengono celebrati in forme piú alte e nobili, incarnati in miti perfetti e puri, in figure elette e caste, entro un rapporto di sentimenti piú calmi e universali, in un clima di saggezza e di nobiltà spirituale. Cui corrisponde una costruzione piú lineare e distesa, una musica piú profondamente e pacatamente suggestiva, con modi espressivi meno icastici e pregnanti, con immagini e figure piú serene e composte anche quando vibrano di un’intima letizia vitale, del fascino della loro elegante e sensibile bellezza, della commozione del poeta per il loro significato di superiore pienezza etico-estetica.

Saggezza e serenità che non ignorano il proprio difficile equilibrio, che non mancano di profonde venature di amarezza di fronte al ritorno o alla resistenza di disvalori e sviamenti e perversioni degli stessi valori (la corruzione del sano piacere in piacere perverso, della robusta ragione in rigida consequenziarietà fanatica), ma che le riassorbono in se stesse e nella propria superiore capacità di «impegno» e «distacco».

Sicché la stessa adesione al neoclassicismo e alle sue forme artistiche sarà da considerare anzitutto nella sua corrispondenza ai motivi etico-estetici dei grandi esemplari classici e del mondo di virile saggezza che essi hanno espresso, e cosí meglio si capirà anche l’avversione profonda del tardo Parini per le tendenze preromantiche non solo nella loro natura di «moda» esterofila e frivola[129], ma nel loro fondo di sensibilità sconvolta e capace, agli occhi del poeta e del saggio, di giungere fino alle forme del piacere perverso e alla perdita di una misura che, prima di essere artistica, era per lui etica, spirituale e culturale.

Ma certamente l’impegno dello scrittore si fa piú mediato e distaccato, la combattività si smorza a favore di un tono magnanimo e superiore. Appoggiata a un senso della vita intero e senza tagli preventivi, ad un umanesimo illuministico senza bruschi salti e senza squilibri, la poetica pariniana mostra sempre piú l’esigenza di una visione serena, meno polemica, piú affermativa, meno impegnata sui particolari, piú sicura in una interpretazione totale. E in questo tono piú distaccato e piú sereno una intima maturità si incontra con le suggestioni del gusto neoclassico assunto con tanto sicura decisione. Il senso alto della poesia nel suo valore superiore di verità e bellezza, di decoro estetico e morale scaturisce dall’equilibrio umano del Parini piú maturo e corrisponde agli ideali estetici del neoclassicismo.

Gusto di immagini mitiche, ricerca di linee ampie, di ritmi pausati ed ariosi coincidono con una concezione della poesia celebrativa e pacatamente solenne. Come si può ricavare dall’inizio veramente esemplare dell’ode In morte del maestro Sacchini (1786):

Te con le rose ancora

de la felice gioventú nel volto

vidi e conobbi, ahi tolto

sí presto a noi da la fatal tua ora,

o di suoni divini

pur dianzi egregio trovator Sacchini![130]

In questi versi cosí ampi e solenni e intimamente musicali, c’è veramente una lezione di musica riconquistata dal Parini, dopo gli esercizi piú ricchi e complicati del Giorno, sulle direzioni del gusto neoclassico e in una maturità che sembra stanca dell’eccessivo sforzo di abilità e di sapore prezioso che sono al limite della forza poetica del Giorno.

E un ritmo pacato e disteso, ben al di là del turgore barocco (e dei pindarici dell’ultimo barocco e dell’Arcadia), al di là del tenero canto arcadico e della musica secca e brillante della poesia illuministicamente didascalica, ricrea qui la condizione di una musica nuova, come le immagini si dispongono senza eccessivo rilievo in una linea composta e spaziosa:

Ed ecco l’atra mano

alzò colei cui nessun pregio move;

e te, cercante nuove

grazie lungo il sonoro ebano invano,

percosse; e di famose

lagrime oggetto in su la Senna pose.

Né gioconde pupille

di cara donna, né d’amici affetto

che tante a te nel petto

valean di senso ad eccitar faville

piú desteranno arguto

suono dal cener tuo per sempre muto.[131]

Naturalmente, ripeto, il neoclassicismo pariniano è originalissimo e la deduzione interna della sua poetica classicistico-illuministica a forme piú decisamente neoclassiche è superiore, per forza di elaborazione personale, a semplici riecheggiamenti di teorie e suggestioni neoclassiche, piú forti in scrittori secondari e piú esplicite comunque in un’epoca piú avanzata, in coincidenza con l’esplosione della attività neoclassica figurativa in epoca napoleonica.

Nel neoclassicismo pariniano vi è sempre una morbidezza e una vivacità che richiama al Parini precedente e il sogno di perfezione non diviene gusto di statuaria staticità e di grandiosità corrucciata e impassibile.

Sicché accanto alla Laurea potrà pur comprendersi la presenza di un’ode come le Nozze (pure del 1777) che, mentre presenta centralmente il senso umanamente profondo che il Parini aveva della lunga fedeltà coniugale, accesa da un amore intero e alimentato dalla «voglia giovanil», ma capace di resistere al declino della «cara gioventú» fino alla tomba (uno dei persuasi miti dell’umanesimo pariniano, del suo sentimento di una vita fruita nei suoi aspetti indissociabili di piacere e virtú), vagheggia anzitutto l’immagine sensibile della giovane sposa al suo risveglio dopo la prima notte nuziale: immagine che si va facendo, entro le direzioni della nuova poetica, sempre piú nitida e limpida, ma pur non perde il brio, la sfumatura sensuosa, il ritmo alacre e festoso della grazia sensistico-rococò e del rapido, sicuro particolareggiamento di sensazioni vive e «naturali»:

Bel veder de le due gote

sul vivissimo colore

splender limpido madore,

onde il sonno le spruzzò!

Come rose ancora ignote

sovra cui minuta cada

la freschissima rugiada

che l’aurora distillò![132]

Cosí come avviene, a piú alto livello di gusto realistico-mitico, in uno dei sonetti per nozze che descrive una scena di una prima notte di amore casto-voluttuoso che tanto finemente delinea nella giovane sposa lo scontro fra pudore virginale e naturale brama dell’amplesso finora da lei non conosciuto e tanto piú perciò fra desiderato e temuto «or che al talamo vien del marito, / male opponendosi; e sul fiorito / letto con trepidi ginocchi ascende»:

O bella Vergine, per cui s’accende

la vergin timida al primo invito

d’Amore, e il giovane caldo ed ardito

a la dolcissima palma contende;

questa a te candida zona sospende

Nice, or che al talamo vien del marito,

male opponendosi: e sul fiorito

letto con trepido ginocchio ascende.

Tu in cambio donale l’amabil cinto,

caro a’ bei giovani e a le donzelle,

onde il tuo morbido fianco è distinto.

In esso e i fervidi baci, e le belle

carezze, e i teneri susurri, e il vinto

pudor di querule spose novelle.[133]

O si ricordi, al limite della prospettiva erotica pariniana, da distinguere da un vero libertinismo – ma da valorizzare come vivacissima sensualità insospettata in configurazioni troppo riduttive della carica vitale del Parini –, almeno quest’altro sonetto che vagheggia, per spregiudicatezza e alto senso della bellezza femminile, una figura di donna amata e sorpresa in un «negligé» trasparente, e cosí tanto piú provocante e voluttuoso quanto piú il volto è tinto dal rossore del pudore:

Che spettacol gentil, che vago oggetto

fu il veder la mia Nice all’improvviso,

quando sorpresa in abito negletto

m’apparve innanzi ed arrossí nel viso!

Come il candido velo al sen ristretto

i bei membri avvolgea! come indeciso

celava e non celava i fianchi e ’l petto

che sorger si vedeva in due diviso!

Quali forme apparian sotto alla veste!

Paga era l’alma e vivo era il desio;

e il piacer del mirarla era celeste.

Deh! mi concedi, Amor, che questa cruda

tal mi si mostri anco un momento; ed io

piú non invidio chi vedralla ignuda.[134]

D’altra parte l’elemento della vivacità, dello scherzo galante, del raffinato giuoco rococò che si fonde organicamente con i toni prevalenti della poetica in direzione neoclassica, si libera piú autonomo (quasi a piú libera riprova del suo perdurare anche se in forme piú squisite e misurate) in quel settore di canzonette e scherzi che non potrebbero però pretendere a un giudizio di eccellenza e centralità poetica[135], né opporsi per il loro gusto piú piccante a una presunta frigidezza letteraria dei componimenti maggiori.

Lievi e sorridenti canzonette per parafuoco ornate di piccoli miti ercolanensi, brevissimi, deliziosi scherzi per ventole o ventagli dipinti con mano sicura e leggera che riesce a muovere in breve giro di versi minuscole scenette galanti ed ambigue

(Sopra il molle canapè

nel meriggio piú infocato

un mi tiene avanti a sé;

altri due gli stanno a lato.

Io con moto dolce e grato

do ristoro a tutti e tre

sopra il molle canapè),[136]

figurine mobili e frivole

(Se una bella ha gelosia,

né il suo mal vuol che si scopra,

colla ventola si copra;

e da un lato guardi poi,

non veduta, i fatti suoi),[137]

o piú fantastiche e ironiche variazioni sul tema costante dell’oggetto femminile, il ventaglio, e le sue svariate funzioni galanti:

De le belle il capo a nuoto

va in un turbin di capricci.

Io movendomi do moto

a quel turbin di capricci:

e cosí con l’opra mia

impedisco che corrotti

non divengano pazzia.[138]

O sono brevi componimenti che condensano (magari attraverso prove successive e significative) in una figurina finale mitico-allegorica il sentimento di saggezza edonistica e razionalmente e virtuosamente confermata che il Parini oppone (su uno dei fronti della sua battaglia contro il moralismo ipocrita e arcigno e contro la corruzione bassa e inelegante) alla falsa severità. Come nella canzonetta per nozze che, attraverso tre versioni, cambia il finale piú maestoso («La ragion seduta in trono / loda il bello e loda il buono») riassorbendone il senso dell’accordo piú mosso e vivace che pur assicura ancora una volta la presenza di parole emblematiche dell’ideale pariniano.

Lungi, o turba de’ severi!

Da te leggi allor non piglio;

non mi curo che tu imperi

coll’irsuto sopracciglio;

e scherzar fo la Virtude

con le Grazie tutte ignude.[139]

Per giungere a poesie che piú si avvicinano alla impostazione di odi-canzonette come Il passatempo o Il brindisi (del 1778), che piacque al Leopardi (ne è riprova il metro del Risorgimento) e che, in forma piú scoperta, esprime la componente edonistica del piú complesso intreccio erotico-morale delle odi amorose: il bisogno della amabile compagnia femminile che sarà compenso estremo – scomparsa la possibilità di un amore intero – del poeta invecchiato, in un brindisi lieto-funereo che, all’apertura ritmicamente individuante il declino biologico e il precipitare degli anni nella discesa della sensibilità

(Volano i giorni rapidi

del caro viver mio:

e giunta in sul pendio

precipita l’età...)[140]

corrisponde nel suo rapido, edonistico, supremo commiato:

Amor con l’età fervida

convien che si dilegue;

ma l’Amistà ne segue

fino all’estremo dí.

Le belle, ch’or s’involano

schife da noi lontano,

verranci allor pian piano

lor brindisi ad offrir.

E noi compagni amabili,

che far con esse allora?

Seco un bicchiere ancora

bevere e poi morir.[141]

Ma nello svolgimento della poetica pariniana formatasi, affermatasi, piú che nelle Poesie di Ripano Eupilino, nelle prime Odi e nei due primi poemetti del Giorno, l’elemento classicistico diventa sempre piú dominante appoggiandosi al gusto neoclassico, corrispondendo ad una specie di alleggerimento interno – frutto di maturazione poetica – e ad un coerente mutamento di «poetica» che tende a forme piú pacate, piú distese, quali abbiamo già viste nelle Odi citate, dalla Laurea pindareggiante alla Recita dei versi. Un Parini che sempre con maggiore distacco e maggiore padronanza considera la materia sensibile e sentimentale della sua esperienza e la elabora nell’essenziale riduzione poetica in linee misurate, in colori poco intensi, in musica poco brillante. È proprio quella chiarezza interiore, quella luminosità sempre piú omogenea di fronte a un certo «frizzante» del periodo precedente, che corrisponde originalmente alla condizione «serena» richiesta dal Winckelmann e maturatasi nel Parini attraverso esperienze tutt’altro che facili, conquista complessa e non semplice impostazione programmatica.

L’armonia che risulta dalla visione pariniana della vita, da sensazione istintiva ed intatta a costruzione civile, si libera dalle forme piú impulsive dello sdegno e della satira, e si trasforma piú direttamente in condizione di poesia. «Cor gentile», «mente arguta», ma soprattutto «orecchio placato» in cui quelle condizioni si depurano e si fanno condizione di lettura poetica delle proprie esperienze e capacità di costruzione poetica. Armonia che sale, come nei teorici neoclassici, da condizione perfetta di sensibilità (i greci di Winckelmann) e che porta ogni moralità su di un piano piú distaccato, insieme sorridente ed austero.

L’accordo di vero e bello qui si fa piú favoloso, assorto pur non perdendo mai nel Parini quel suo calore di vita generosa e acquistando sempre piú un tono elevatissimo. Su questa condizione etico-estetica cosí in accordo con le esigenze neoclassiche la poetica pariniana richiede immagini sempre piú figurative nel senso del disegno piuttosto che in quello del colore e della complessità sensibile. Dalle figurine del primo Giorno, cosí intensamente vive in ogni direzione della sensibilità, si passa al ritratto delle dame delle ultime odi, alla figura di Silvia «umana e pudica», a quella della Musa e della giovane sposa di Febo d’Adda in cui il neoclassicismo pariniano raggiunge la sua massima evidenza.

Anche il gusto del «celebrare», dell’elogiare prende un tono diverso da quello piú immediatamente utilitario-civile delle prime odi e si fa piuttosto altamente decorativo, alto velo di mito; non è il gusto di celebrazione fastoso del mitico Monti, ma certo i motivi civili si sentono piú in distanza e in una dimensione diversa, con minore urgenza e con un senso della civiltà piú armonioso e non meno serio.

Si ripensi al Bisogno e si confronti con la Magistratura (1788) in cui il passo si è calmato, il procedere ritmico si è fatto ampio, mentre tutto si trasforma in un’atmosfera decisamente piú classica, per cui il Gritti diventa un «eroe», le chiese, le piazze diventano «templi» e «fori», la giustizia è Temide, le insegne della giustizia i «fasci» e l’immagine dell’«eroe» si ferma in gesti e atteggiamenti di calma decorosa, di forza placida, riposata e «solenne»:

Chi sí benigno e forte

di Temide impugnò l’util flagello?

O chi pudor sí bello

diede all’augusta autorità consorte?

O con sí lene ciglio

fe’ l’imperio di lei parer consiglio? [...]

Ei gli audaci repressi

tenne con l’alma dignità del viso.[142]

E si legga il saluto a Vicenza, in cui il ritmo è chiarissimo e solenne, senza le sottolineature violente della Salubrità dell’aria, con un uso delle rime estremamente sobrio, quasi in un organismo che le supera e se ne serve come di raccordo di simmetriche proporzioni al di là ormai della esperienza del verso sciolto, assimilata in esigenza di ritmo ampio, piú musicale che canoro:

Salute a te, salute,

città, cui da la berica pendice

scende la copia, altrice

de’ popoli, coperta di lanute

pelli e di sete bionde,

cingendo al crin con spiche uve gioconde.

A te d’aere vivace

a te il ciel di salubri acque fe’ dono,

caro tuo pregio sono

leggiadre donne, e giovani a cui piace

ad ogni opra gentile

l’animo esercitar pronto e sottile.

Il verde piano e il monte,

onde sí ricca sei, caccian la infame

necessità che brame

cova malvage sotto al tetro fronte;

mentre tu l’arti opponi

all’ozio vil corrompitor de’ buoni.

E lungi da feroce

licenza e in un da servitude abbietta,

ne vai per la diletta

strada di libertà dietro a la voce,

onde te stessa reggi

de’ bei costumi tuoi, de’ le tue leggi.

Leggi che fin da gli anni

prischi non tolse il domator romano;

né cancellar con mano

sanguinolenta i posteri tiranni;

fin che il Lione altero

te amica aggiunse al suo pacato impero.[143]

Il largo uso dell’enjambement è qui in funzione di un ritmo largo, pieno, senza fretta, legato e solenne senza enfasi, si unisce all’essenzialità non pungente del rilievo aggettivale, sentito piú come precisione e arricchimento di un disegno che come grumo di sensazioni tradotte in immagine. Sempre forza di sensibilità, ma piú subordinata ad una funzione di disegno, quasi verso una figura mitica e allegorica secondo il gusto di Winckelmann, come è alla fine della prima strofa l’immagine della «Copia»:

coperta di lanute

pelli e di sete bionde,

cingendo al crin con spiche uve gioconde.

E cosí nella strofa seguente tornano sí le espressioni piú forti che esprimono il generoso sdegno pariniano, ma inglobate in una visione armonica e attutite dalla introduzione cosí densa e pacata della strofa:

Il verde piano e il monte,

onde sí ricca sei, caccian la infame

necessità che brame

cova malvage sotto al tetro fronte;

mentre tu l’arti opponi

all’ozio vil corrompitor de’ buoni.

Senso del decoroso, del solenne che riempie la lunga ode al cardinale Durini: La gratitudine (1790), in cui, in forma spesso monotona nella eccessiva lunghezza, il Parini rinnova la sua professione di fede nella poesia e nel classicismo come misura estetica ed etica:

Parco di versi tessitor ben fia

che me l’Italia chiami.[144]

C’è un’atmosfera neoclassica che trasforma il cardinal Durini in un antico senatore e addirittura in un dio greco:

E spesso i Lari miei, novo stupore!

vider l’ostro romano

riverberar nel vano

dell’angusta parete almo fulgore:

e di quell’ostro avvolti

vider natia bontà clemente affetto,

ingenui sensi nel vivace aspetto

alteramente scolti;

e quanti alma gentil modi ha piú rari

onde fortuna ad esser grande impari.[145]

Come classica è l’atmosfera dell’immagine vivissima del poeta immerso nel bagno:

ed io, fra l’acque in rustic’urna immerso,

e a le Naiadi belle umil converso,

oro non già chiedea

che a me portasser dall’alpestre vena,

ma te, cara salute, al fin serena.[146]

O di quella nell’ingresso del cardinale nella scuola del poeta:

Ed ecco, i passi a quello dio conforme

cui finse antico grido

verso il materno lido

dal Xanto ritornar con splendid’orme,

ei venne; e al capo mio

vicin si assise; e da gli ardenti lumi

e da i navi spargendo atti e costumi

sovra i miei mali oblio,

a me di me tali degnò dir cose

che tenerle fia meglio al vulgo ascose.[147]

O del paragone mitologico con cui vien celebrato il gesto gentile del cardinale che accolse il poeta per strada nella sua carrozza:

Come la Grecia un dí gl’incliti figli

di Tindaro credette

agili su le vette

de le navi apparir pronti a i perigli;

e di felice raggio

sfavillando il bel crin biondo e le vesti,

curvare i rosei dorsi; e le celesti

porger braccia, coraggio

dando fra l’alte minaccianti spume

al trepido nocchier caro al lor nume:

tale in sembianti ei parve oltra il mortale

uso benigni allora...[148]

In una poesia tutta formata di sentimenti «classici», paurosa di incrinare l’aria di decoro e di gentilezza, di innocenza e bellezza delle grazie, in una poesia come alta celebrazione sincera di anime senza torbidezza, di purezza immacolata, è poi centrale la lezione di «bellezza greca» che il Parini dà traducendo Sofocle alla presenza del cardinale, il quale, lodato il maestro, loda il tragico greco e conforta cosí l’amore dei giovani che

dietro a gl’inviti

de la grecia beltà corser rapiti.[149]

Cosí il Parini può precisare, nel pieno del suo esercizio poetico maturo, il suo ideale neoclassico e la sua ripugnanza per l’invasione preromantica:

– Vedrò vedrò da le mal nate fonti

che di zolfo e d’impura

fiamma e di nebbia oscura

scendon l’Italia ad infettar da i monti;

vedrò la gioventude

i labbri torcer disdegnosi e schivi;

e a i limpidi tornar di Grecia rivi

onde natura schiude

almo sapor che a sé contrario il folle

secol non gusta, e pur con laudi estolle.[150]

Si noti infine come la direzione etico-estetica del Parini neoclassico trovi conferma anche in forme laterali e minori delle sue attività letterarie: come nella «festa teatrale» Ascanio in Alba, da «rappresentarsi in musica» per le nozze dell’arciduca Ferdinando d’Austria e Maria Beatrice d’Este, che nel suo tenue disegno e nel pacato linguaggio melodico, ormai lontani dalla piú fervida qualità del melodramma metastasiano, traduce un senso di vita armonioso e casto, presenta vaghe scene di paesaggio piú disegnato che colorito

(Qua vaghezza mi guida

di visitare i vostri colli ameni,

i puri stagni, e per il verde piano

queste vostre feconde acque correnti)

e figure «maestose» e gentili, «umane», soavemente armoniche, modeste, virtuose e nobili

(Mira, o stranier, come il bel passo move

maestosa e gentile: a le seguaci

come umana sorride,

come tra lor divide

i guardi e le parole. In que’ begli atti

non par che scolta sia

l’altezza del pensiero, e di quell’alma

la soave armonia?),[151]

intimamente coerenti al prevalere della kalokagathía neoclassica nella versione etica e «naturale» della poetica pariniana nel suo nuovo sviluppo. A cui pur si addice, in questa prospettiva teatrale e nobilmente cortigiana, la lieve allegoria morale e la forma di lieto fine virtuoso e felice, senza impeto ed esuberanza edonistica, del «componimento drammatico», piú o meno coevo, Iside salvata, in cui spicca un’ennesima versione del «folle mortale» irrequieto, avido di piaceri non posseduti nel momento stesso della conquista della felicità, subito turbato dal vano timore di perderla, che precisa ancora una volta – in questa temperie di saggezza sempre piú consolidata – lo storico contrasto della visione pariniana con quella che si esprimerà nel Leopardi in una cosí diversa utilizzazione di una base eudemonistico-sensistica (si pensi al «piacer figlio d’affanno; / gioia vana ch’è frutto / del passato timore...»[152]):

Non mi turbate

con aerei sospetti i bei momenti

di questo allegro dí. Folle mortale!

immaginando vai

col desire inquieto

i piacer che non hai:

ma li possiedi appena,

che col vano timor li cangi in pena.[153]

Come lieve e pacata è la comicità (parodistica del melodramma serio) dell’«incompiuto» dramma comico L’amorosa incostanza (probabilmente fra il 1771 e il 1780), che si incentra sempre sulla stoltezza di ogni eccesso passionale.

7. La continuazione del «Giorno»

Entro le linee della lenta evoluzione della poetica pariniana verso una sua configurazione piú neoclassica si sviluppa anche il tentativo di completare il Giorno con le due parti del Vespro e della Notte (mentre in un primo tempo il poeta aveva pensato ad articolare il poema in sole tre parti: Mattino, Mezzogiorno, Sera). La scansione del Giorno in due fasi fondamentali (poemetti del ’63-65 da un lato, Vespro e Notte dall’altro, con la coeva revisione di Mattino e Mezzogiorno) non deve far pensare tuttavia ad una profonda frattura nella composizione dell’opera, la cui elaborazione presenta invece il carattere di una pressoché ininterrotta continuità di lavoro entro la quale vanno poi distinte le successive fasi di poetica e poesia del Parini. E infatti i dati di cui disponiamo ci consentono di fissare con sufficiente approssimazione l’inizio del Vespro negli anni immediatamente successivi alla stampa del Mezzogiorno (’67 circa), anche se il lungo periodo di composizione del poemetto, che si protrae fino a intorno l’80 (e a questa data si raccorda approssimativamente l’inizio della Notte, alla quale il poeta lavorò forse anche fin dopo il ’91), fa sí che le due ultime parti del Giorno vengano a corrispondere sostanzialmente al progressivo svolgimento della poetica pariniana già da noi seguito nello studio delle Odi. Ma l’opera non fu mai compiuta per un insieme di ragioni al cui centro è certo la minor pressione di necessità polemica e poetica di un tipo di poesia rispetto al quale il Parini si era venuto volgendo ad una poesia piú «occasionale» (nel senso goethiano della parola «occasione»), piú ispirata alle sue nuove idealità estetiche neoclassiche, alla sua prospettiva meno aggressiva, fiduciosa e insieme piú appagata di quelle conquiste di riforma pratica e morale a cui egli sentiva di aver già collaborato con le prime Odi e soprattutto con le prime parti del Giorno.

Che è quanto egli aveva detto assai chiaramente nell’epistola in versi al barone De Martini[154], in cui, mentre lamenta le proprie condizioni pratiche che avrebbero limitato lo stesso compimento del Giorno e chiede al «consultor del trono», piú che la lode dei pregi dell’arte, l’approvazione autorevole della «materia» e del «fine» del poema, presenta la propria opera poetica, la cui forma «scherzosa» non escludeva la serietà di fondo, ispirata ad una volontà di riforma dei cattivi costumi dei «fortunati» e degli «illustri», esempio dannoso per lo stesso costume del popolo, che trovava ora piú chiara consonanza con la piú decisa iniziativa riformatrice di Giuseppe II:

Spesso gli uomini scuote un acre riso:

ed io con ciò tentai frenar gli errori

de’ fortunati e degli illustri, fonte

onde nel popol poi discorre il vizio.

Né paventai seguir con lunga beffa

e la superbia prepotente e il lusso

stolto ed ingiusto e il mal costume e l’ozio

e la turpe mollezza e la nemica

d’ogni atto egregio vanità del core.

Cosí, già compie il quarto lustro, io volsi

l’itale Muse a render saggi e buoni

i cittadini miei: cosí la mente

io d’Augusto prevenni, a cui, se in mezzo

all’alte cure, de’ miei carmi il suono

salito fosse, a la salute, a gli anni

onde son grave, avrei miglior sostegno;

e al termin condurrei la impresa tela.

Dunque, o signore, a la tua man concedi

che rieda il mio volume; ond’altri veggia

che, se tu dotto vi lodasti alcuno

pregio dell’arte, la materia e il fine

tu, consultor del trono, anco ne approvi.[155]

Alla luce di questa consapevolezza e di questa rinnovata volontà di prosecuzione della sua impresa di correttore di costumi entro un clima riformatore piú chiarito e deciso si può meglio capire come il Parini, nella continuazione del Giorno, fosse portato, anche per ciò, a diminuire la carica aggressiva, senza d’altra parte perdere di vista il rapporto essenziale con i suoi ideali riformatori su cui, come abbiamo detto, incideva – in un nesso duttile e reciproco – la maturazione del suo animo e del suo gusto in direzione di una visione vitale e poetica piú distesa e distaccata che si riflette nelle forme stesse della rappresentazione satirica delle nuove parti del Giorno.

E, d’altra parte, alla luce di quanto si è detto nel precedente capitolo, incideva sulle nuove direzioni poetiche della ripresa del Giorno quella maturazione della poetica pariniana in senso neoclassico[156], le cui esigenze si riflettono assai chiaramente sia nelle correzioni apportate ai due primi poemetti alla ricerca di ritmi piú larghi e pacati, di forme piú semplici ed elette (con smorzamenti del rilievo classicistico-sensistico piú irto di suoni e colori addensati[157]: e a volte con l’innegabile perdita di qualche maggiore punta aggressiva[158]), sia nelle parti interamente nuove del Vespro e della Notte.

Si noti per queste parti nuove la maggiore presenza di figurazioni in qualche modo piú contemplate e limpide (e non perciò ornamentali) cui la mitologia contribuisce con piú diretta funzione di suggestione estetica: come questa luminosa immagine del cielo notturno:

Mira la Notte,

che col carro stellato alta sen vola

per l’eterea campagna; e a te col dito

mostra Teseo nel ciel, mostra Polluce,

mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi,

che per mille d’onore ardenti prove

colà fra gli astri a sfolgorar salíro.[159]

E si noti come, anche quando il poeta si impegna in una descrizione oggettiva-sensoriale, il suo gusto sensistico sia divenuto piú leggero, piú trasparente, volto ad una specie di morbida impalpabilità entro una misura piú nitida ed eletta: come nel caso della descrizione della costruzione del canapè nella Notte[160].

Il tessuto stesso delle immagini si fa meno succolento, pur non perdendo mai la sua base di sensistica esaurienza, cosí come i persistenti procedimenti della inversione, del rilievo dell’arcatura e della spezzatura nel verso sono volti – con un uso piú parco – ad una funzione di sintassi poetica piú musicale ed armonica.

Qual è in definitiva il risultato del lavoro pariniano nelle due ultime parti del Giorno?

Nel Vespro (dei cui 510 versi fan parte – si ricordi – 25 versi, in apertura, tolti all’edizione del 1765 del Mezzogiorno e, infine, 161 versi pure tolti allo stesso poemetto, sicché la parte nuova si riduce a poco piú di 300 versi[161]) assai tenue è la spinta organica degli episodi che non trovano un saldo legame narrativo-satirico nel labile nesso delle visite e del filo piú interno costituito dal motivo della degradazione dell’amicizia («non piú feroce / qual ne’ prischi eccitar tempi godea / l’un per l’altro a morir gli agresti eroi, / ma placata e innocente...»), che si risolve nell’affettuosità frivola dei giovin signori o in quello anche piú dubbio delle dame pronte al pettegolezzo sui casi delle piú fide amiche, pronte al battibecco e al litigio entro le forme ipocrite della convenienza e dell’educazione, o di quello della satira iniziata e abbandonata della poesia encomiastica.

Eppure, in sé e per sé, alcune piccole scene di elegantissima satira raggiungono, nell’arte matura e squisita del Parini, una innegabile perfezione a cui la sicurezza classicistica piú alleggerita e distesa in senso neoclassico e l’accresciuto gusto di sfumatura di un rococò sensibile e limpido apportano un movimento agile e chiaro, un colore morbido e pastoso, senza grumi e senza sbavature, un tono di grazia superiore che pure si alimenta di un acuto scandaglio nella sensibilità, svolgendone (non ottundendone) le punte piú acri in una misura nitida e perfetta.

Cosí la deliziosa scena dell’attacco isterico della damina, in cui un realismo acuto e pungente si inscrive entro un’eleganza nitidamente sfumata che utilizza con gentile ironia i delicati accenni di una mitologia erotica di suprema grazia e discrezione:

Che fa l’amica sua? Misera! Ieri,

qual fusse la cagion, fremer fu vista

tutta improvviso, ed agitar repente

le vaghe membra. Indomito rigore

occupolle le cosce; e strana forza

le sospinse le braccia. Illividíro

i labbri onde l’Amor l’ali rinfresca;

enfiò la neve de la bella gola;

e celato candor da i lini sparsi

effuso rivelossi a gli occhi altrui.

Gli Amori si schermiron con la benda;

e indietro rifuggironsi le Grazie.

In vano il cavaliere, in van lo sposo

tentò frenarla, in van le damigelle

che su lo sposo e il cavaliere e lei

scorrean col guardo; e poi ristrette insieme

malignamente sorrideansi in volto.

Ella truce guatando curvò in arco

duro e feroce le gentili schiene;

scalpitò col bel piede; e ripercosse

la mille volte ribaciata mano

del tavolier ne le pugnenti sponde.

Livida pesta scapigliata e scinta

al fin stancò tutte le forze; e cadde

insopportabil pondo sopra il letto.[162]

Cosí quello dell’incontro delle «fervide amiche» paragonato ai duelli di guerriere dell’epoca cavalleresca in uno squisito gusto di satira e parodia che riesce insieme a creare una scena settecentesca vibrante di sottile movimento psicologico e oggettivo (la caduta contemporanea e ben calcolata delle due damine sul sofà, l’alternarsi dei «sottili motti» che accendono la loro ira e l’accelerazione di questa nell’accelerarsi dell’agitarsi dei ventagli) e l’ariosa rievocazione cavalleresca-ariostesca di gesti eroici e grandiosi:

Già le fervide amiche ad incontrarse

volano impazienti; un petto all’altro

già premonsi abbracciando; alto le gote

d’alterni baci risonar già fanno;

già strette per la man co’ dotti fianchi

ad un tempo amendue cadono a piombo

sopra il sofà. Qui l’una un sottil motto

vibra al cor dell’amica; e a i casi allude

che la Fama narrò: quella repente

con un altro l’assale. Una nel viso

di bell’ire s’infiamma: e l’altra i vaghi

labbri un poco si morde: e cresce in tanto

e quinci ognor piú violento e quindi

il trepido agitar de i duo ventagli.

Cosí, se mai al secol di Turpino

di ferrate guerriere un paro illustre

si scontravan per via, ciascuna ambiva

l’altra provar quel che valesse in arme;

e dopo le accoglienze oneste e belle

abbassavan lor lance e co’ cavalli

urtavansi feroci; indi infocate

di magnanima stizza i gran tronconi

gittavan via de lo spezzato cerro,

e correan con le destre a gli elsi enormi.

Ma di lontan per l’alta selva fiera

un messagger con clamoroso suono

venir s’udiva galoppando; e l’una

richiamare a re Carlo, o al campo l’altra

del giovane Agramante. Osa tu pure,

osa invitto garzone il ciuffo e i ricci

sí ben finti stamane all’urto esporre

de’ ventagli sdegnati: e a nuove imprese

la tua bella invitando, i casi estremi

de la pericolosa ira sospendi.[163]

O quella dell’annuncio della nascita del nobile rampollo a parenti e vassalli, ammirevole per la capacità pariniana di offrire una specie di «stampa» del ’700 insaporita dei particolari suggestivi di antichi e rustici residui feudali:

Ecco la sposa

di Ramni eccelsi l’inclit’alvo al fine

sgravò di maschia desiata prole

la prima volta. Da le lucid’aure

fu il nobile vagito accolto a pena,

che cento messi a precipizio usciro

con le gambe pesanti e lo spron duro

stimolando i cavalli, e il gran convesso

dell’etere sonoro alto ferendo

di scutiche e di corni: e qual si sparse

per le cittadi popolose, e diede

a i famosi congiunti il lieto annunzio:

e qual per monti a stento rampicando

trovò le ròcche e le cadenti mura

de’ prischi feudi ove la polve e l’ombra

abita e il gufo; e i rugginosi ferri

sopra le rote mal sedenti al giorno

di novo espose, e fe’ scoppiarne il tuono;

e i gioghi de’ vassalli e le vallèe

ampie e le marche del gran caso empièo.[164]

Dove risplende la capacità pariniana di un tono di misurata parodia entro cui particolari realistici e classicamente eletti (le «gambe pesanti» dei messi stivalati, i «rugginosi ferri», cioè le vecchie colubrine ormai private del loro uso di guerra) insinuano un che di favoloso e di antico, di rude e cadente, di sensorio e di elegante estremamente saporoso e armonicamente concluso: prova di un’arte matura ed episodicamente eccellente, anche se meno sorretta da una intera forza di slancio aggressivo e polemico.

Piú meditata, malgrado la sua incompiutezza, e concepita in un disegno piú chiaro è la Notte, aperta dalla grande scena a contrasto della notte tenebrosa e pericolosa dei tempi lontani di una nobiltà «dura ed alpestre» (singolare pezzo di alta bravura poetica in cui il Parini, piú che un deciso e schietto avvio di poesia preromantica[165], offre la prova della sua capacità di utilizzare certo diffuso gusto ossianesco e notturno preromantico per chiari effetti parodistico-satirici) e la notte della società nobiliare sfarzosa e lussuosa contro cui il Parini ora sempre piú si appunta non tanto in una generale aggressione contro la nobiltà, quanto in una volontà di recuperare certe virtú di energia della nobiltà antica contro una parte della nobiltà attuale (in parte invece educabile ed educata agli ideali civili di una sua funzione economica e sociale, e soprattutto al culto del «bello e del vero», della virtú e di un’eleganza intima e «decente»). E si noti come – in un nesso inseparabile di polemica ideologica e sociale e di altri affetti poetici – la luce artificiale che respingendo le tenebre «sopra i covili, ove le fiere e gli uomini / da la fatica condannati dormono», invade le sale sfarzose e ne rivela gli oggetti e i personaggi preziosi e frivoli:

Già di tenebre involta e di perigli,

sola squallida mesta alto sedevi

su la timida terra. Il debil raggio

de le stelle remote e de’ pianeti,

che nel silenzio camminando vanno,

rompea gli orrori tuoi sol quando è duopo

a sentirli assai piú. Terribil ombra

giganteggiando si vedea salire

su per le case e su per l’alte torri

di teschi antichi seminate al piede.

E upupe e gufi e mostri avversi al sole

svolazzavan per essa; e con ferali

stridi portavan miserandi augurj.

E lievi dal terreno e smorte fiamme

sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme

di su di giú vagavano per l’aere

orribilmente tacito ed opaco;

e al sospettoso adultero, che lento

col cappel su le ciglia e tutto avvolto

entro al manto sen gía con l’armi ascose,

colpíeno il core, e lo strignean d’affanno.

E fama è ancor che pallide fantasime

lungo le mura de i deserti tetti

spargean lungo, acutissimo lamento,

cui di lontano per lo vasto buio

i cani rispondevano ululando.

Tal fusti o Notte allor che gl’inclit’avi,

onde pur sempre il mio garzon si vanta,

eran duri ed alpestri; e con l’occaso

cadean dopo lor cene al sonno in preda;

fin che l’aurora sbadigliante ancora

li richiamasse a vigilar su l’opre

de i per novo cammin guidati rivi

e su i campi nascenti; onde poi grandi

furo i nipoti e le cittadi e i regni.

Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,

ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,

che trionfanti per la notte scorrono,

per la notte, che sacra è al mio signore.

Tutto davanti a lor, tutto s’irradia

di nova luce. Le inimiche tenebre

fuggono riversate; e l’ali spandono

sopra i covili, ove le fere e gli uomini

de la fatica condannati dormono.

Stupefatta la Notte intorno vedesi

riverberar piú che dinanzi al sole

auree cornici, e di cristalli e spegli

pareti adorne, e vesti varie, e bianchi

omeri e braccia, e pupillette mobili,

e tabacchiere preziose, e fulgide

fibbie ed anella e mille cose e mille.[166]

L’impegno pariniano si volge cosí (come ben notò il Momigliano) a creare, in questo scenario lussuoso e frivolo (contrappuntato da brevi visioni del diverso scenario che accoglie la vita dei servi, l’autenticità dello schiamazzare del dialetto e del riso dell’«energica plebe»: quell’energia che accomuna, in certo modo, caratteri dell’antica nobiltà e della plebe, uomini vivi contro larve irrecuperabili alla vita, diversamente da quei nobili «riformati» a cui si rivolgono le ultime odi) vaste scene d’insieme, gruppi di individui spettrali su cui l’occhio poetico si fissa portandone alcuni in primi piani di comicità elegante e luminosa, come quello dell’«eroe» che, per hobby, fa il messaggero a cavallo[167].

Per poi tornare a inquadrarli tutti insieme nel rilievo[168] della loro stupidità fino al paradosso delle loro frivole gioie, della loro volgare corruzione sotto il manto di una dignità convenzionale e di una cultura dilettantesca in cui tutti i veri valori sono degradati, tanto piú rilevando cosí – a contrasto – lo scatto morale di odi come la Caduta o l’attrazione per una zona superiore di spirituale aristocrazia entro cui il poeta si muove nelle odi neoclassiche. È al lavoro delle odi che infatti il Parini da tempo si era volto con maggior generale congenialità di innografia di valori positivi individuati nella società «riformata» o da lui tale creduta, in accordo con il suo mondo interiore sempre piú dominato da ideali etico-estetici cui contribuí la sua progressiva adesione al gusto neoclassico.

8. Le grandi «Odi»

Non sembri un’intrusione eterogenea in questa poesia il tocco di brio amabile che appare nel Pericolo, nel Dono e fin nel grande Messaggio, in cui l’elemento erotico ritorna insieme con la viva fede nel «piacevole» come elemento essenziale della vita e suscettibile di eleganza e di candore, nel senso piú limpido e pur sensibile della bellezza.

Anche gli ideali di bellezza fisica sono ormai nel Parini schiettamente neoclassici e nella nostra poesia quegli «occhi fulgidi», quel «mobile seno», quel «nudo braccio» e «la candida mano» e «le nevi del petto» o «le braccia orgogliose» o le altre immagini del Pericolo e del Messaggio sono ormai centri poetici di suggestione di bellezza insieme sensibile ed ideale-morale nel senso neoclassico[169].

Una casta e viva sensibilità, uno sguardo sereno ed uguale e sempre piú una capacità di sentire schiette e vive immagini e parole in una sintesi piú profonda di quella del periodo illuministico-sensistico.

E la «grazia» neoclassica non rimane una semplice direzione letteraria, nascendo nel Parini dal suo animo puro e virilmente sereno, in cui la galanteria e il culto della bellezza sono a loro volta coefficienti di serenità amabile, non arcigna, di una eleganza gentile, di una civiltà salda nelle sue convinzioni e nella sua laboriosità, ma pacatamente sorridente nella sua origine sinceramente e nobilmente edonistica. Sulla linea della poesia galante-amorosa entro la maturata direzione della poetica neoclassica si colloca il Pericolo (Per Cecilia Tron), del 1787 circa, che vagheggia, con soave galanteria, una immagine di bellezza nel contrasto con l’età senile in cui pur resiste l’attrazione della grazia femminile, nel chiaroscuro ironico fra l’asserzione dell’animo ancora fervido e il «canuto spettacolo» di «giovanili pene» che il vecchio innamorato potrebbe dare «ai garzoni e al popolo», e trova espressioni squisite e sensibili nella rappresentazione mobile e nitida dei particolari della bellezza della giovane dama

(Qual, se parlando, eguale

a gigli e rose il cubito

molle posava? Quale,

se improvviso la candida

mano porgea nel dir?

E a le nevi del petto,

chinandosi, da i morbidi

veli non ben costretto,

fiero dell’alma incendio!

permetteva fuggir?)[170]

o nella lieve e agile immagine del vagheggiamento da lontano per opera della dolce fantasia

(Ben sí nudrendo il mio

pensier di care immagini,

con soave desio

intorno all’onde adriache

frequente volerò)[171]

che risolve il movimento patetico e ironico dell’ode in un impalpabile sospiro e sorriso dell’animo che ha bruciato, in una specie di sensazione piú interna, ogni peso di descrizione troppo minuta e particolareggiata.

Poi, nel 1790, Il dono (Alla marchesa Paola Castiglioni) presenta, entro la cornice galante, un prezioso incontro di terrore e voluttà (fra la lettura delle tragedie dell’Alfieri inviate in dono al poeta dalla giovane contessa e l’immagine di lei che a quella lettura si intreccia, soffondendone l’impressione gagliarda e terribile di una dolce, sensuale grazia edonistica) che si precisa e si esalta – acuto e pur lontano da ogni outrance di sensibilità eccitata e morbosa – nella delicata e sorridente figurazione neoclassica-rococò di Adone morente, assistito dalla bella Venere:

Caro dolore, e specie

gradevol di spavento

è mirar finto in tavola

e squallido, e di lento

sangue rigato il giovane

che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere

la madre de gli Amori,

cingendol con le rosee

braccia si vede, i cori

oh quanto allor si sentono

da giocondo tumulto agitar piú![172]

Ma su questa linea, che recupera piú facilmente gli acquisti della grazia rococò (mai nel Parini dominante in funzione di gusto aristocratico-edonistico puramente decorativo o incentivo di libertina evasione dalla realtà morale) entro una piú complessa grazia neoclassica, fatta di sensazioni e sentimenti natural-piacevoli diretti a un superiore senso di fruizione serena ed armonica di una bellezza mai scompagnata da un valore morale, il capolavoro pariniano è certo Il messaggio (Per l’inclita Nice)[173] del 1793. In questa ode l’attrito poetico sulla tematica galante-amorosa si risolve in una perfetta linea di ritmo e di immagini, di favola poetica esemplare che coinvolge (donde il piú naturale passaggio da quest’ode alle ultime due odi estetico-morali) un ideale autoritratto del poeta nella suprema identificazione delle costanti della sua natura spontanea e della sua conquistata saggezza, della sua «calda fantasia» e della sua lucida consapevolezza dei valori e disvalori della vita umana fino a quella del volo inesorabile del tempo, della caducità e della morte, compensati dalla fiducia in nuove albe di altri tempi e altre generazioni e nella consolazione e durata degli affetti umani:

A me disse il mio Genio

allor ch’io nacqui: – L’oro

non fia che te solleciti,

né l’inane decoro

de’ titoli, né il perfido

desio di superare altri in poter.

Ma di natura i liberi

doni ed affetti, e il grato

de la beltà spettacolo

te renderan beato,

te di vagare indocile

per lungo di speranze arduo sentier.[174]

A questo autoritratto, che profondamente giustifica la vocazione «al grato / della beltà spettacolo» (legato com’essa è a quello piú centrale della fruizione dei «liberi doni ed affetti» della natura), si appoggia la limpida e musicale favola poetica nella sua partizione perfetta e libera, nel suo segno nitido e aerato, nel trapasso, agevole e necessario, dei suoi toni piú densi e sensibili (l’apertura con la scena del servo che viene a chieder notizie sulla salute del poeta da parte dell’«inclita Nice» e che provoca con il bel nome di questa un turbamento che riassorbe le note appassionate di un celebre frammento di Saffo:

Rapido il sangue fluttua

ne le mie vene: invade

acre calor le trepide

fibre, m’arrosso:

cade la voce...)[175]

ai toni di pacata autoironia del «vecchiarello immaginoso»[176], esercitati con mano lieve e sicura sulla confusione provocata dal «bel nome», a quelli delicati e contenuti della rappresentazione della bella immagine progressivamente evocata dalla «calda fantasia»:

Ed ecco ed ecco sorgere

le delicate forme

sovra il bel fianco; e mobili

scender con lucid’orme

che mal può la dovizia

dell’ondeggiante al piè veste coprir.

Ecco spiegarsi e l’omero

e le braccia orgogliose

cui di rugiada nudrono

freschi ligustri e rose,

e il bruno sottilissimo

crine che sovra lor volando va:

e quasi molle cumulo

crescer di neve alpina

la man che ne le floride

dita lieve declina,

cara de’ baci invidia

che riverenza contener poi sa...[177]

Per passare poi alla giustificazione seria e pacata dell’autoritratto e infine, nell’ultima parte, ancor piú misurata, intima, fra tenue malinconia e placato ultimo vagheggiamento della bella immagine, alla grazia impareggiabile della rappresentazione della fine del secolo e dell’alba del nuovo con la figura elegantissima e leggera, agile fino all’impalpabile – dove il disegno si fa musica –, delle vergini Ore

(E già vicine a i limiti

del tempo i piedi e l’ali

provan tra lor le vergini

Ore che a noi mortali

già di guidar sospirano

del secol che matura il primo dí)[178]

e alla luce tenue, lievemente malinconica (la malinconia è qui pacata, misurata, come il piacere, l’ironia e lo sdegno morale), del prefigurato rinnovato rapporto dopo la morte, fra il poeta e la donna ancor giovane, còlta in una visione elegante e sottilmente realistica: risuonerà ancora il suo bel nome e si rinnoverà la commozione inesausta del poeta:

Ma io, forse già polvere

che senso altro non serba

fuor che di te, giacendomi

fra le pie zolle e l’erba,

attenderò che dicano:

– Vale, – passando – e ti sia lieve il suol. –

Deh! alcun che te nell’aureo

cocchio trascorrer veggia,

su la via che fra gli alberi

suburbana verdeggia,

faccia a me intorno l’aere

modulato del tuo nome volar.

Colpito allor da brivido

religioso il core,

fermerà il passo, e attonito

udrà del tuo cantore

le commosse reliquie

sotto la terra argute sibilar.[179]

Una poesia, per dirla in breve, che par definita nel suo ritmo, tono, linguaggio, dalle parole con cui, in quell’ode, il Parini rappresenta il parlar «eletto e nitido» di Nice:

... come di limpide

acque lungo il pendio lene rumor...[180]

Né si può certo scambiare simili risultati artistici con prodotti di involuzione senile e di esangue letterarietà.

Due grandi odi del ’95 chiudono l’attività pariniana: Sul vestire alla ghigliottina (A Silvia), Alla Musa, capolavori, insieme al Messaggio, del Parini e del neoclassicismo italiano nei suoi originali legami con il classicismo illuministico e sensistico.

Nella prima una singolare potenza morale, superiore a satira ed ironia, ha fatto le sue estreme prove, rifiutando forme di esplosione immediata per un tessuto composto e armonico in cui quella forza è insieme depurata del suo impeto piú contingente e resa piú ricca di vasto suono storico.

La stessa strofa di tipo savioliano è qui utilizzata (con uso ben lontano da quello del Savioli) ad una composizione solenne, scandita e distaccata, in cui la forza si inibisce un dilagare, un prorompere sonoro e sentimentale, e accresce tanto piú le possibilità della precisione, della semplificazione essenziale e del ritmo proporzionato, nitido, stringente e concatenato.

La scelta della strofetta adatta alle canzoni e alle brevi immagini edonistiche è in realtà dovuta all’esigenza di una costruzione ferma e composta a scene in progresso (si noti l’abbondanza di «indi», «quindi», «poi», «cosí») e d’altra parte non aliene da possibile attacco con forme piú preziose. Come sono quelle delle prime strofe che piú fanno pensare al Savioli:

Forse spirar di zefiro

senti la tiepid’ora?

Ma nel giocondo Ariete

non venne il sole ancora.

Ecco di neve insolita

bianco l’ispido verno

par che, sebben decrepito,

voglia serbarsi eterno.[181]

Ma se la strofetta è capace di accogliere perfino espressioni quasi melodrammatiche

(Parla. Ma intesi. Oh barbaro...),[182]

la sua vera nuova funzione viene rivelata quando è adibita all’inquadramento fermo, senza alone, di una visione potente e terribile, e serve anch’essa a quel bisogno di solido impianto che è proprio dell’ultimo Parini.

Non un ritorno al saviolismo, dunque, ma la utilizzazione di uno schema semplice e perfetto per dominare in forme perentorie e chiare una materia poetica di singolare potenza.

L’alta moralità pariniana, il suo acceso sdegno contro il «secolo spietato», il suo rifiuto di ogni forma di crudeltà, tanto piú empia se usata nell’affermazione di ideali umanitari e progressivi (come era per lui la violenza usata nelle guerre di religione o dall’inquisizione in nome di Cristo) fanno in A Silvia la loro prova maggiore, dimostrando anche come in atmosfera neoclassica il Parini sapesse conciliare la sua esigenza di candore o di grazia con l’urgere della sua ricchezza morale. Il sogno della bellezza ideale e dell’animo pacato non implicava in lui atonia spirituale e ripiegamento: era l’acquisto di una visione piú vasta e di una forza piú sicura, di una saggezza che mal potrebbe definirsi moralistica e astratta se nello scavo della sensibilità il Parini penetra a fondo con lucido e coraggioso sguardo rifiutando, per una scelta di civiltà (non per ipocrita e pudibonda remora), l’incontro per lui abominevole di sadismo e rivoluzione, di libertinismo e di libertà.

Forza superiore, rivelazione nel Parini di estrema maturità nella sua esperienza della sensibilità umana, nel suo bene e nel suo male, e di forza stilistica calma, impassibile che riduce ogni scena fremente in immagini nette, sobrie, potenti, con parole che nella loro nudità han superato lo stadio dell’aggressività immediata ed hanno l’evidenza solenne di una storia poetica.

Il gladiator, terribile

nel guardo e nel sembiante,

spesso fra i chiusi talami

fu ricercato amante.

Cosí, poi che da gli animi

ogni pudor disciolse,

vigor da la libidine

la crudeltà raccolse.

Indi a i veleni taciti

si preparò la mano:

indi le madri ardirono

di concepire in vano.[183]

Lontano dalle forme piú dure e aggressive delle prime odi, la forza poetica di quest’ultimo Parini si è fatta piú distaccata e sicura; qui c’è piú «storia» che «cronaca» e un’aria di alto mito civile circonda queste scene mosse da una altissima serietà etico-estetica.

Il neoclassicismo arriverà spesso a quadri storici decorativi; nel Parini invece questo senso di storia e di mito è assicurato ad un potente senso della vita il cui ardore per i particolari è attenuato, ma la cui presenza generale, sempre piú armonica e serena, lo salva da un vacuo fasto archeologico.

Ma è in Alla Musa che si ha la resa piú alta del neoclassicismo pariniano.

Come nella Recita dei versi il Parini aveva enunciato la condizione della poesia, nell’inizio dell’ode Alla Musa, in una musica adeguata, in un disegno ampio e pacato, traduce in immagini allargate e pausate il senso di una vita per la poesia, di una vita misurata e sensibile, attenta e civile, che riprende tutte le direzioni precedenti dell’autobiografia poetica pariniana, ma le porta in un’aria ancor piú luminosa e limpida, in un candore sereno che condensa l’aspirazione neoclassica e pariniana alla pacatezza e alla superiore saggezza.

Nel gusto simmetrico che contrappone a quattro tipi di condizione «impoetica» quattro condizioni di vita per la poesia, frammezzate da una domanda piana e senza ansia, il ritmo largo e sicuro della saffica accompagna le posizioni sicure di immagini e di lessico sempre piú insaporite di calma saggezza, di mitica distanza.

Te il mercadante che con ciglio asciutto

fugge i figli e la moglie ovunque il chiama

dura avarizia nel remoto flutto,

Musa non ama.

Né quei cui l’alma ambiziosa rode

fulgida cura onde salir piú agogna;

e la molto fra il dí temuta frode

torbido sogna.

Né giovane che pari a tauro irrompa

ove a la cieca piú Venere piace:

né donna che d’amanti osi gran pompa

spiegar procace.[184]

Il mondo dell’interesse e della incontinenza, dell’egoismo insensibile e della sfrenata sensualità è stato rilevato senza colore brillante e pure in un eletto coraggio di realtà («ove a la cieca piú Venere piace»), senza concedere nulla al suo fascino immaginoso, in una contemplazione calma e pure non frigida (come invece diventa spesso la contemplazione neoclassica di poeti meno personali). Costruzione di una limpidezza superiore nella evidenza dei suoi membri e nella trasparenza delle parole, meno gremite e dense di sensazioni di quanto avveniva nel Parini precedente, eppure non esangui e rarefatte.

E coerentissimo è l’introdursi del nuovo tema nella interrogazione sicura e soave, in una mossa allungata, bonaria ed elegante:

Sai tu, vergine dea, chi la parola

modulata da te gusta od imita;

onde ingenuo piacer sgorga, e consola

l’umana vita?[185]

Questo senso virgineo della poesia e della sua capacità di consolazione nella sua virtú di «parola» superiore e pur ben umana presuppone una speciale vita di affetti nativi:

Colui cui diede il ciel placido senso

e puri affetti e semplice costume

che di sé pago e dell’avito censo

piú non presume.

Che spesso al faticoso ozio de’ grandi

e all’urbano clamor s’invola, e vive

ove spande natura influssi blandi

o in colli o in rive:

e in stuol d’amici numerato e casto,

tra parco e delicato al desco asside;

e la splendida turba e il vano fasto

lieto deride.

Che a i buoni, ovunque sia, dona favore;

e cerca il vero; e il bello ama innocente;

e passa l’età sua tranquilla, il core

sano e la mente.[186]

E la condizione essenziale fra vita e poesia al di sopra di posizioni polemiche, di satira, di poesia efficace ed «utile» enunciata essenzialmente nel v. 30

(e cerca il vero; e il bello ama innocente),

vive in tutta l’ode nell’estrema coerenza dei sentimenti tradotti in linguaggio nitido e senza sforzo nella sua sintetica espressività («placido senso», «età tranquilla», «il core sano e la mente»), in un ritmo spazioso e calmo senza urgenza e senza zelo pratico, senza rilievo brillante, mentre la visione generale non insiste sul particolare gustoso e sensibile, come avveniva ancora nel primo Giorno.

La capacità espressiva del Parini era giunta ad un grado di estrema finezza, ben superiore al tour de force denunciato dalla Staël per il Giorno, ed operava al servizio di una fantasia sicura e limpida, se pure vicina ai margini di una possibile monotonia, di una trasparenza quasi eccessiva, che però essa non supera mai. Come il tono ironico si è ridotto a grazia sorridente – si pensi all’inizio della soave parlata della Musa alla giovine sposa sul puro disegno neoclassico di una toilette senza preziose eleganze:

Musa, mentr’ella il vago crine annoda

a lei t’appressa; e con vezzoso dito

a lei premi l’orecchio; e dille... –,[187]

cosí tutta la poesia pariniana si è alleggerita in un discorso lirico pausato e trasparente, e pur tutt’altro che esangue e rarefatto:

Io di mia man per l’ombra, e per la lieve

aura de’ lauri l’avviai ver l’acque

che al par di neve

bianche le spume scaturir dall’alto

fece Aganippe il bel destrier che ha l’ale...[188]

Bellezza ideale e grazia sensibile, nobile, eletta familiarità, come nell’immagine celeste ed affabile della Musa

(... io stessa, il gomito posando

di tua seggiola al dorso, a lui col suono

de la soave andrò tibia spirando

facile tono)[189]

han trovato nella poesia dell’ultimo Parini le condizioni piú originali ed omogenee di disegno puro, di figura, di inno mitico in riferimento a un mondo di affetti semplici e sublimi:

Scenderà in tanto dall’eterea mole

Giuno che i preghi de le incinte ascolta...[190]

Sarà piú tardi il grande Foscolo a rinnovare personalmente la poesia neoclassica e a disperdere la pesantezza gessosa dei pittori-dottori con un senso romantico del mito, con l’unione del «mirabile» e del «passionato», per giungere, nelle Grazie, ad una poesia di un carattere cosí originale che – sul limite piú arduo fra romanticismo e neoclassicismo – non fu compresa né dai romantici né dai classicisti. Ma nei limiti del gusto settecentesco italiano è il Parini delle grandi Odi il poeta che meglio ha usufruito delle suggestioni estetiche d’origine winckelmanniana e che su di una linea originalmente tradizionale ha potuto realizzare una vera poesia della stille Grösse und edle Einfalt, della semplicità sublime e della kalakagathía partecipata in una profonda verità personale, senza il fremito ansioso del finale dell’Ode on a Grecian Urn, senza l’appassionata richiesta di compenso dell’Hyperion, in un equilibrio, in una misura di saggezza, che è anche l’estremo limite di una civiltà che, scossa dai primi accenti del preromanticismo, verrà effettivamente turbata e sconvolta solo dalle vicende rivoluzionarie e dall’impetuosa novità alfieriana. E tuttavia, per la sua varia e intera offerta di poesia (non solo le Odi, ma il Giorno), l’opera del Parini, anche al di là di quel cerchio e di quel limite storico, avrà capacità di suggerimenti e suggestioni per gli uomini e gli scrittori dell’Ottocento, anche se il suo significato e valore potrà essere solo piú tardi recuperato in una prospettiva critica piú approfondita e storica.


1 Rinvio per il mio precedente contributo critico sul Parini (dopo il lontano commento alle Odi in G. Parini, Giorno e Odi a cura di W. Binni e D. Guerri, Vallecchi, Firenze 1938) ai seguenti miei saggi: La sintesi pariniana in Preromanticismo italiano cit.; La poesia del Parini e il neoclassicismo (1952) in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.; Parini e l’illuminismo (1955) in Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino 1960, 19744; a varie recensioni di libri nella sezione Settecento della «Rassegna della letteratura italiana» dal 1953 in poi (fra cui quella alla prima edizione del libro di G. Petronio, Parini e l’illuminismo lombardo, Milano 1960, e pubblicata in Classicismo e neoclassicismo cit.) e alle pp. 64-65 del mio Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 963. Per la storia del problema critico pariniano rinvio al capitolo Parini a cura di L. Caretti nel vol. II dei Classici italiani nella storia della critica, opera da me diretta, La Nuova Italia, Firenze 1955 e ss. e al volume dello stesso Caretti, Parini e la critica, Firenze 1958 (con successive edizioni e aggiornamenti).

2 Poesie, ed. a cura di E. Bellorini, Bari 1929, II, p. 228.

3 Racconta il suo biografo ed amico, il Reina, che tale malattia lo colse sui vent’anni: «A ventun anno soffrí egli violenta stiracchiatura di muscoli, ed una maggior debolezza; perloché gambe, cosce, e braccia cominciarongli a mancar d’alimento, ad estenuarsi agli uffizi loro.» Ma il Reina poi aggiunge, a nobilitare il ritratto del suo amato poeta e maestro: «Egli è però da avvertire che tanta era in lui la dignità e maestria del portamento, del porgere e dello stampar l’orma, che ogni gentile persona era obbligata alla maraviglia, veggendo il suo difetto. Statura alta, fronte bella e spaziosa. Vivacissimo grand’occhio nero, naso tendente all’aquilino, aperti lineamenti rilevati e grandeggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente scolpiti, mano maestra di bei modi, labbra modificate ad ogni affetto speziale, voce gagliarda, pieghevole e sonora, discorso energico e risoluto, ed austerità di aspetto raddolcita spesso da un grazioso sorriso indicavano in lui l’uomo di animo straordinariamente elevato e concigliavangli una riverenza singolare» (Opere di Giuseppe Parini, pubblicate e illustrate da Francesco Reina, vol. I, Milano 1801, pp. VII-VIII).

4 Poesie, ed. cit., II, pp. 150-152.

5 Lo dice Pietro Verri in una lettera del 18 giugno 1794 al fratello Alessandro, conservata – con altre lettere e carte inedite – presso l’archivio privato Sormani-Verri, in Milano.

6 Tutte le opere edite e inedite di Giuseppe Parini, raccolte da Guido Mazzoni, Firenze 1925, p. 1027. Le prose – ad eccezione del Dialogo sopra la nobiltà – saranno sempre citate da quest’edizione, che d’ora in avanti indicheremo nella forma abbreviata Tutte le opere.

7 Poesie, ed. cit., II, p. 225.

8 Poesie, ed. cit., II, p. 279.

9 Tutte le opere, ed. cit., p. 1030.

10 Poesie, ed. cit., II, p. 112. E cosí si pensi al frammento Ad un amico che scrive delle osservazioni sui costumi dei cittadini (Poesie, ed. cit., pp. 180-181) in cui il Parini considera concretamente efficace solo una riforma dei costumi popolari realizzata sí con ferma e decisa lotta contro ciò che «opponsi / a la comun felicità», ma con il metodo della cautela e della gradualità, non con quello delle decisioni radicali e totali.

11 La recensione dell’opera del Mehegan, uscita nel 1766 a Parigi, fu pubblicata anonima nell’«Estratto della letteratura europea per l’anno 1767», ma l’attribuzione di essa al Parini è assicurata dalla lettera pariniana al Bettinelli del 10 maggio 1769, interessante anche per gli elogi del poeta all’Entusiasmo del Bettinelli (libro giudicato «pieno di cose nuove ed importanti e di principii atti a rimettere sulla buona via gl’ingegni italiani che, anche in materia di arte, o giacciono oppressi da una fanatica superstizione, o nuotano incerti fra un ozioso scetticismo») e per la dichiarazione di un’«occulta armonia» fra le loro anime (Tutte le opere, ed. cit., p. 992).

12 Tutte le opere, ed. cit., pp. 637-638 e 640.

13 Tutte le opere, ed. cit., p. 944.

14 Tutte le opere, ed. cit., p. 946.

15 Poesie, ed. cit., II, p. 263.

16 Tutte le opere, ed. cit., p. 957.

17 Si veda ad es. il sonetto LXIII (Poesie, ed. cit., II, p. 273) in cui un coro di giovani monache giustifica la loro scelta della vita claustrale mostrando quante persone sono pur perdute alla vita coniugale e civile per seguire la cupidigia, la crudele ambizione in guerra («all’altrui danno e ai pianti») o in viaggi alla ricerca del lucro e contrapponendo a quelle basse ragioni il loro innocente piacere di solitudine e di penitenza e rappresentandosi come quelle che «supplici ognor davanti al nume / sul popolo invochiamo dovizia e pace / e custode a le leggi aureo costume». Un altro sonetto (p. 272) per monacazione insiste di nuovo sulla contrapposizione (in chiave di «libera coscienza») fra la giovane monaca che «libera e forte» dona se stessa «ostia innocente» e quei celibi libertini che, mentre accusano le monache di venir meno al dovere – verso la «patria» – di «generosi figli», seguono gli istinti e si astengono dalle nozze peccando contro la virtú e la natura. D’altra parte non si dimentichi, per capire le sfaccettature di una tematica tutt’altro che convenzionale, e anzi sofferta e tormentosa per il Parini, un altro sonetto, a p. 246, in cui il poeta esorta una giovane monacanda a guardarsi dai pericoli della vita claustrale del tempo: l’invidia, il gusto di contesa e di rissa, lo stesso amore che l’aspetterà «insidioso al varco / fra gli oziosi e striduli cancelli».

18 Poesie, ed. cit., II, p. 127.

19 Poesie, ed. cit., II, p. 284.

20 Poesie, ed. cit., II, pp. 256-257.

21 Tutte le opere, ed. cit., pp. 709-710.

22 Poesie, ed. cit., II, p. 266. Un secondo sonetto per la stessa occasione (a p. 267) si rivolge all’imperatore consigliandogli moderazione e rispetto per il papa: non piú. Notevole anche, per la posizione anticlericale del Parini, il sonetto del 1769, Per l’entrata a Roma dell’imperatore Giuseppe II (Poesie, II, p. 262), che attacca la superstizione e l’infelice Roma ripiombata «nel letto di sue vergogne», non avendo saputo accettare le coraggiose proposte di riforma religiosa di Giuseppe II che il Parini vedeva, evidentemente, anche come purificazione della Chiesa e ritorno alla sua missione evangelica.

23 Poesie, ed. cit., II, p. 268. Anche l’Alfieri compose un sonetto sullo stesso tema esaltando nel volo aerostatico un’allusione al profondo bisogno dell’uomo di «sferrarsi» dal «terrestre carcere».

24 Tutte le opere, ed. cit., p. 748.

25 Tutte le opere, ed. cit., pp. 748-749: «Questa mascherata rappresenta gli abitatori d’alcune valli sopra il Lago Maggiore, parte de’ quali sino ab antico costumano di guadagnarsi il sostentamento in Milano impiegandosi in que’ privati e pubblici servigi che son proprii del facchino. Stanno questi nella città con certi obblighi e privilegii, che ne autorizzano l’uso e la dimora. Quelli poi che rappresentano tal gente colla mascherata cosí detta de’ Facchini o la Facchinata, sono persone civili, addette ad un corpo che chiamasi la magnifica Badia. Questa piacevole congrega è d’origine molto incerta: nondimeno se ne ha memoria d’oltre a due secoli. Gode d’alcuni privilegii concedutile dai governatori di questo Stato. Ha statuti ancor essa e cariche, come di piovano, d’abate, di dottore, di cancelliere, di poeta e simili. Gl’individui della Badia affettano un dialetto proprio del paese del quale si fingono. Hanno ciascuno un nome bizzarro e caratteristico, che li distingue. Hanno una foggia di ballo e di costumanze nazionali. Il loro abito è d’un panno bigio, con un giubboncino e le calze dello stesso. Il cappello è del medesimo colore, ma ornato di grandi e ricchi pennacchi, che dànno alla figura un’aria bizzarra e pittoresca. Portano alla cinta un grembiule vagamente ricamato d’oro e d’argento con simboli e figure alludenti al carattere particolare, che ciascun rappresenta. Recano un sacco in ispalla, ed hanno al viso maschere eccellentemente fatte, raffiguranti fisionomie oltremodo nuove e capricciose, ma nello stesso tempo naturali e secondo il costume».

26 Poesie, ed. cit., II, p. 270. Si noti del resto come lo stesso giuoco del Ponte sia interpretato come incentivo «ai forti studi e all’utile fatica» e non (come appariva all’Alfieri) come segno di disposizioni guerriere non tutte sopite nel popolo italiano.

27 Tutte le opere, ed. cit., p. 964.

28 Tutte le opere, ed. cit., p. 961.

29 In alcune lettere del ’97 all’amico Paganini, pur nel riserbo circa l’oggetto di quella passione (Francesca Castelbarco Simonetta), trova espressione un tormentoso dramma di amore senile che tinge di toni di profonda inquietudine proprio l’alto esito di armonia e di altissima saggezza delle ultime Odi. Vi risaltano constatazioni di «estrema malinconia», di smarrimento totale («ti giuro che io sono come un uomo smarrito, che si lascia condurre dal caso e dalla tristezza che lo lacera»), di naturale disposizione alla infelicità per debolezza di fronte alle passioni («la natura mi ha disposto a dei sentimenti che mi dovevano rendere perpetuamente infelice: ed io son cosí debole, che non ho mai saputo far uso della ragione per domarli, o almeno per moderarli»), e colpisce particolarmente – ad apertura di queste confidenze – il contrasto ben significativo fra il quadro ideale di una propizia situazione estremamente pariniana (e proprio il Parini delle ultime grandi Odi) e la constatazione della quasi assurda infelicità del poeta: «Io mi trovo in un’aria felicissima, in un paese amenissimo, sopra una collina, donde domino un interminabile orizzonte di pianure e di montagne, in una compagnia piena di amicizia e di cordialità: e nondimeno io sono il piú infelice di tutti gli uomini» (Tutte le opere, ed. cit., p. 1016; per le altre citazioni cfr. pp. 1022 e 1020).

30 Contro i fermieri o appaltatori il Parini scrisse un vigoroso sonetto che qui riporto (Poesie, ed. cit., II, p. 303):

Che vale ormai sulle erudite carte

impallidire ricercando il vero?

Che val seguir d’Astrea la nobil arte,

e serbar delle leggi il santo impero?

Che val esporre il petto al dubbio Marte

e sotto l’elmo incanutir guerriero?

Che val fidar la vita a vele e sarte,

del mar solcando l’infedel sentiero,

quando sol la virtú deserta langue,

e ’l vizio esulta fra le gemme e gli ori?

Che val scienza, onestade e sparger sangue,

quando il vil pubblican, co’ rei tesori

che di bocca strappò del volgo esangue,

s’erge dal fango a profanar gli onori?

31 Negli appunti Per il Segretario di un’Accademia di Belle Arti (probabilmente del ’67-68), rivelatori per una concezione di riforma gerarchica e armonizzante il contributo delle varie classi di «arti» e di «talenti» (fra cui «la piú necessaria» allo Stato appare l’agricoltura), il Parini afferma: «La natura estremamente feconda nelle sue produzioni, somministra allo stato politico, ne’ varii talenti degli uomini, una infinita varietà di strumenti. Tocca alla prudenza e allo zelo di colui che vi presiede l’assegnare a ciascuno il suo luogo, e il valersi di ciascuno in modo che tutti concorrano all’edificio del pubblico comodo e della pubblica utilità» (Tutte le opere, ed. cit., p. 950).

32 A quel rischio poteva in parte avvicinarsi l’impostazione dell’introduzione di L. Caretti alla sua edizione di G. Parini, Poesie e prose, Milano-Napoli 1951; piú tardi fortemente corretta nel bel saggio del ’67 posto poi come introduzione dell’antologia Il Giorno, poesie e prose varie, Firenze 1969.

33 Si veda in proposito lo scritto Le costituzioni fondamentali della Reale Accademia di Agricoltura di Milano (Tutte le opere, ed. cit., pp. 929 ss.) in cui l’agricoltura è definita materia «che interessa la fondamentale felicità d’uno Stato»; si ricordino i passi del Giorno avanti citati nel paragrafo sulle due prime parti del poema; si ricordi negli appunti Per il Segretario di un’Accademia di Belle Arti il passo in cui il Parini si preoccupa del fatto che la quantità degli uomini che s’impiegano in altre attività non pregiudichi mai l’«agricoltura, la piú necessaria di tutte le Arti, la sola dove il numero delle mani lavoratrici non è mai di sua natura eccedente» (Tutte le opere, ed. cit., p. 951).

34 Cfr., ad esempio, il pur fine volumetto di A. Accame Bobbio, Parini, Brescia, 1954, da me discusso in una recensione nella «Rassegna della letteratura italiana», 3-4, 1955.

35 Cfr. Tutte le opere, ed. cit., pp. 683 ss., anche per le sparse citazioni che seguono.

36 Tutte le opere, ed. cit., pp. 838-839. Sulla prearcadia toscana rinvio al mio libro L’Arcadia e il Metastasio cit.

37 Tutte le opere, ed. cit., p. 630.

38 Tutte le opere, ed. cit., pp. 939-940.

39 Tutte le opere, ed. cit., pp. 941-942.

40 Cfr. Tutte le opere, ed. cit., p. 657, dove il Parini si propone, nel programma delle sue lezioni, di scegliere «gli eccellenti esemplari da tutti i tempi e da tutte le nazioni», aggiungendo: «E perché, quando tutti i popoli della terra hanno instituito un felice commercio di tutti i beni che la natura ha diviso fra essi, sarà dato ai soli Greci ed ai soli Latini il privilegio del Bello e del Sublime?».

41 Tutte le opere, ed. cit., p. 836. Tra gli altri giudizi si ricordi, sempre sulla «bella imitazione» degli antichi, quello sul Poliziano o viceversa quello sul Chiabrera incapace di raggiungere la forza sublime – di «verità» e di «espressione» – di Pindaro e la forza di stimolazione della sensibilità di Anacreonte, e d’altra parte, nel versante del rapporto indissolubile fra poesia e progresso, quello su Dante che fu «il primo che, trasferendo l’entusiasmo della libertà politica anco negli affari delle lettere, osò scuotere il giogo venerato della barbara latinità de’ suoi tempi, per levar di terra il peranco timido volgare della sua città, e condurlo di balzo a trattare in versi l’argomento il piú forte ed il piú sublime che a scrittore ad a poeta cristiano poteva convenirsi giammai» (Tutte le opere, ed. cit., p. 813). Né si dimentichi in quel giudizio l’accenno al rapporto fra esilio e perfezione del poema.

42 Tutte le opere, ed. cit., pp. 947-948.

43 Sul rococò nella letteratura settecentesca rinvio al mio saggio omonimo in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit., pp. 3-34.

44 Ché anche il Fubini, crociano molto innovatore e originale, il quale pure tanto finemente ha studiato la poesia del Parini anche nei suoi raccordi con l’illuminismo, pur definisce la poesia pariniana come «il frutto migliore dell’umanesimo arcadico» (in Arcadia e illuminismo, 1949, e poi in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954 e 1975), troppo legando (seppure in progresso) ideali arcadici e ideali illuministici in una continuità che io non ritengo di poter accettare, come ho mostrato nell’introduzione di questo volume.

45 Si ricordi che i componimenti del volumetto giovanile ripubblicati nel 1780 nel vol. XIII delle Rime degli Arcadi a Roma (dopo che il Parini era stato accolto in Arcadia con lo pseudonimo di Darisbo Elidonio) sono tratti dalla serie di sonetti piú intonati alla tematica pastorale arcadica. Per la formazione del primo Parini si ricordano i volumetti di R. Spongano, Il primo Parini, Bologna 1964, e quello di L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa 1967, che notano, variamente e con qualche evidente forzatura nel caso dello Spongano, differenze già fra il Parini giovanile e la produzione arcadica, ma non perciò isolandolo totalmente da quella, come invece faceva G. Petronio nell’introduzione all’antologia G. Parini, Opere (Rizzoli, Milano 1957), affermando che «Il Parini ci appare ancora “un isolato” senza gusto e interessi per quella stessa lirica arcadica che da un trentennio d’anni aveva dato all’Italia una letteratura nuova, e, nei limiti suoi, una poesia nuova: quella se non altro di Pietro Metastasio e di Paolo Rolli, o, proprio in quegli anni, di Jacopo Vittorelli, ad esempio» (p. 10). Ma come poteva il Parini «proprio in quegli anni» interessarsi al Vittorelli che, nato nel 1749, aveva tre anni all’epoca della pubblicazione di Alcune poesie di Ripano Eupilino?

46 Poesie, ed. cit., I, p. 13.

47 Poesie, ed. cit., I, p. 13.

48 Si veda cosí il componimento LXXXII (Poesie, ed. cit., pp. 50-51):

Andate a la malora, andate, andate,

e non mi state a rompere i ...

Io non vo’ piú sentir queste sonate.

Che vestizioni, che professioni?

Doh maledette usanze indiavolate!

Possibil che dottor non s’incoroni,

non si faccia una monaca o un frate,

senza i sonetti, senza le canzoni?

Che debb’io dire? che costei le spalle

ardita volge ai tre nemici armati,

ch’alla cella sen va per dritto calle!

Ch’amor disperasi e gl’innamorati?...

E dàlle e dàlle e dàlle e dàlle e dàlle,

con questi cavolacci riscaldati!

O il sonetto LIII (Poesie, ed. cit., I, p. 31) che si apre con un’invettiva contro chi «ardí di violare» «le sacre di Pindo alme parole» e volgere «il dritto e sano pensier» «in torte insulte fole».

49 Si vedano in proposito i sonetti XXXVIII, XXXIX, XL (e poi il LIV) che insistono sul carattere sacro della poesia, sul suo valore di consolazione e di promozione di civiltà e sulla propria invincibile vocazione poetica.

50 Poesie, ed. cit., I, pp. 46-47.

51 Cfr. Poesie, ed. cit., I, p. 20.

52 Poesie, ed. cit., I, p. 25.

53 Notevole l’uso energetico ed elegante delle inversioni su cui poté influire, già a questa altezza, il linguaggio dei traduttori dai classici e dai classicisti stranieri come il Pope.

54 Cfr., per queste citazioni, Tutte le opere, ed. cit., pp. 551, 557-558.

55 Cfr. Tutte le opere, ed. cit., p. 621. «Luce della verità» e progresso dei «tempi» che oltretutto sono invocati proprio a chiarire un punto assai delicato delle controversie circa i beni degli ordini religiosi che il Branda considerava assolutamente indipendenti e senza doveri rispetto alla Lombardia, rifiutando sdegnosamente quanto il Parini aveva detto «ch’ei vive del frutto delle nostre terre». «Questo mi fa ricordare del Porco spinoso, che, insinuatosi nella tana della Volpe, a poco a poco ne la cacciò fuori, e se ne chiamava padrone. Perché conta egli queste novelle, a questi tempi e in questa luce della verità? Ne domandi egli i suoi prudentissimi Correligiosi; e tutti unanimemente gli risponderanno che quanto essi possedono il debbono o a’ nostri clementissimi principi o al nostro pubblico o a’ nostri concittadini; e che, per quanto le loro forze comportano, essi procurano e sono obbligati di corrispondere al fine che questi hanno avuto, dando loro ricetto, sostentamento e protezione. Perché dunque conta egli queste novelle, a questi tempi e in questa luce della verità?».

56 A causa della quale egli non poteva certo figurare con un suo stemma nobiliare, magari acquistato per danaro, fra gli scolari nobili della scuola di S. Alessandro: «Egli è bensí vero ch’egli non potrà veder pendere alle pareti de’ portici scolastici il mio nome, accompagnato di qualche ingegnoso emblema e adorno d’una cornice dorata, perché, come ottimamente sa quel suo Correligioso mio benefattore, i miei parenti non ebbero mai danari da gittar via» (Tutte le opere, ed. cit., p. 611).

57 Tutte le opere, ed. cit., p. 593.

58 «... la vera eloquenza non consiste già solo nelle parole e in quelle che si chiamano lascivie del parlar toscano, ma assai piú consiste nella robustezza delle ragioni e nella bellezza de’ pensieri» (Tutte le opere, ed. cit., p. 596).

59 Tutte le opere, ed. cit., p. 595.

60 Sicché il Parini sapeva pur riprendere la lezione «meneghina» del Maggi e poi del Tanzi e del Balestrieri in rari sonetti in dialetto milanese che, mentre sembrano anticipare modi realistico-satirici del Porta (è il caso del sonetto del ’93 El magon dii damm de Milan per i baronade de Franza o di quello non datato Al curato de Pusiano, rispettivamente a p. 278 e a p. 314 delle Poesie, ed. cit., II, chiaramente vogliono adeguarsi ad una poetica cui la natura dà la base di realtà e schiettezza, ma l’arte offre l’ineliminabile raffinamento della vera poesia (si ricordi quanto è detto nel sonetto del 1780 al Carpani, in Poesie, ed. cit., II, p. 265: «Alto, andee innanz, studiee sira e matina. / La natura l’è bel che fa el prim lett; / ma l’art è quella che tutt cos rafina / tra l’un e l’altr ve faran perfett»), rifiutando nettamente la sciatteria improvvisatoria di certa poesia vernacola prevalente ai suoi tempi (si ricordi il finale del sonetto In morte de Domenico Balestrieri, del 1780, in Poesie, ed. cit., II, p. 265), in cui si parla degli insolenti ragazzi di adesso e li si ammonisce che per sonare lo strumento del meneghino «no basta a boffargli dent»).

61 «Che dobbiamo noi altro fare a questo mondo, fuorché cercar d’illuminarci vicendevolmente?» (Tutte le opere, ed. cit., p. 596).

62 Al Branda che aveva deriso le donne milanesi scusandosi poi col dire che aveva inteso indicare solo le donne della plebe, il Parini replica: «Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano? Non siete voi Religioso? Ora perché vi debb’esser lecito di vilipendere, di biasimar, di beffare quella particolare specie di donne, la quale, comeché umile, indotta, impotente, pure si è non meno uomo di quel che voi siete? Le scienze vi debbon pure avere insegnato che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti, quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtú, che debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il qual dice: – Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna –» (Tutte le opere, ed. cit., p. 578).

63 Poesie, ed. cit., II, pp. 171-173, anche per la citazione seguente. Ma, si badi bene, è lo stesso elogio e plauso a provocare come una esitazione e poi lo sgorgo violento dei temi antimilitaristici: ché se Natura e Ragione comandano di difendere le «patrie mura», ogni notizia di «crudel conflitto» non può non far nascere nell’animo saggio pietade «de’ miseri mortali; e orrore incontro / al fero mostro che, d’Averno uscito, / sol di sangue si pasce e di rapine».

64 Poesie, ed. cit., II, p. 171.

65 Poesie, ed. cit., II, pp. 171-172.

66 Poesie, ed. cit., II, p. 167.

67 Per questo scritto seguo il testo critico datone recentemente da L. Poma in appendice al saggio Stile e società nella formazione del Parini cit. (prima relazione, secondo l’Ambrosiano vi, i, pp. 103-118).

68 Cosí nella indicazione del cattivo odore emanato dal cadavere del nobile («Voi puzzate ch’è una maraviglia. Voi non olezzate già piú muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le intestina!», dice il poeta, a p. 103) o nella minaccia grottesca e macabra del nobile indignato dal «tu» confidenziale del poeta: «Se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch’ora m’esce del bellico, che infradicia» (p. 104).

69 Dialogo sopra la nobiltà, ed. cit., p. 105.

70 Dialogo sopra la nobiltà, ed. cit., pp. 108-110.

71 «Nobile. Tu déi sapere che que’ primi de’ nostri avoli prestarono de’ grandi servigi agli antichi nostri príncipi, aiutandoli nelle guerre ch’eglino intrapresero; e perciò furono da quelli beneficati insignemente e renduti ricchi sfondolati. Dopo questi, altri, divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri fuorusciti, e segnalarono la loro vita facendo stare al segno il loro Principe e la loro patria; altri si diedero per assoldati a condurre delle armate in servigio ora di questo, or di quell’altro Signore, e fecero un memorabile macello di gente d’ogni paese. Tu ben vedi che in simili circostanze, sia per timore d’essere perseguitati, sia che per le varie vicende s’erano scemate le loro facoltà, si ritirarono a vivere ne’ loro feudi, ricoverati in certe loro ròcche sí bene fortificate che gli orsi non si sarebbono potuti arrampicare; dove non ti potrei ben dire quanto fosse grande la loro potenza. Bastiti il dire che, nelle colline ov’essi rifugiavano, non risonava mai altro che un continovo eco delle loro archibusate, e ch’egli erano dispotici padroni della vita e delle mogli de’ loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto rispettabili uomaccioni fosser costoro, de’ quali tenghiamo tuttavia i ritratti appesi nelle nostre sale» (ed. cit., p. 111).

72 Alla fine del dialogo il poeta afferma, giuocando sul macabro particolare della corruzione del cadavere del nobile che è giunta a «infracidirgli» la lingua, che «la lingua de’ Poeti è sempre l’ultima a guastarsi» (ed. cit., p. 118).

73 Cfr. per queste citazioni Tutte le opere, ed. cit., pp. 685-687.

74 La salubrità dell’aria, vv. 127-132. Per le Odi seguiamo il testo stabilito da A. Chiari (Sulle «Odi» di Giuseppe Parini, Milano 1943).

75 La vita rustica, vv. 25-32.

76 La vita rustica, vv. 81-88.

77 La vita rustica, vv. 65-80.

78 Poesie, ed. cit., II, p. 124.

79 Poesie, ed. cit., II, p. 123.

80 La salubrità dell’aria, vv. 91-112.

81 L’innesto del vaiuolo, vv. 37-38.

82 L’innesto del vaiuolo, vv. 172-180.

83 L’innesto del vaiuolo, vv. 181-189.

84 L’innesto del vaiuolo, vv. 127-130.

85 Si ricordi che il Casanova libertino, ma deciso avversario dell’omosessualità, indicava come principale causa della dilagante pederastia l’educazione all’ambiguità del sesso implicita nelle forme, canto e prestazioni femminili dei cantanti evirati.

86 La musica, vv. 19-24.

87 Tutte le opere, ed. cit., p. 964.

88 Il bisogno, vv. 35-36.

89 Il bisogno, vv. 7-12.

90 Si ricordino, come passo assai chiarificatore, i versi 465-477 del Mezzogiorno in cui il Parini, rappresentando lo spavento delle «smilze ombre de’ padri» quando vedono lo scroccone voracissimo avvicinarsi alla mensa del loro discendente, immagina che esse piangano sí la virtú della parsimonia da loro impiegata per formare fortune ora dilapidate («le mal spese vigilie, i sobrj pasti, / le in preda all’aquilon case, le antique / digiune rozze, gli scommessi cocchj ecc.»), ma insieme lamentino, come in piú acuto rimorso, il loro spietato sfruttamento dei propri contadini, la giustizia da loro violata a danno delle classi subalterne («e lamentando vanno / gl’invan nudati rustici, le fami / mal desiate, e de le sacre toghe / l’armata in vano autorità sul vulgo»). Per Il Giorno seguo l’edizione critica a cura di Dante Isella (2 voll., Milano-Napoli 1969). Avverto inoltre che le citazioni dal Mattino e dal Mezzogiorno sono fatte sulle redazioni rispettivamente del ’63 e del ’65.

91 La sua spada è ridotta a un oggetto inutile e preziosamente ornamentale anche se per ragion di moda essa deve essere lunga «e di triplice taglio armata e d’elsa / immane». Mentre egli «naturalmente il sangue aborre» e si getta in mezzo alla cipria che deve imbiancare la sua capigliatura con lo stesso coraggio con cui qualche suo antenato «tra ’l fumo e ’l foco / orribile di Marte, furiando / gittossi allor che i palpitanti Lari / de la Patria difese, e ruppe e in fuga mise l’oste feroce» (Mattino, vv. 781-785). E perfino la «gelosia», che non faceva certo parte della visione morale del Parini, viene a suo modo rilevata con una certa simpatia come estrema forma di un forte sentimento coniugale in contrasto con la frivola e corrotta condiscendenza e indifferenza dei «moderni mariti». Si vedano in proposito, fra l’altro, i vv. 163-202 del Mezzogiorno. Il Parini non ama certo i «dell’altro secolo feroci, / ed ispid’avi», i signorotti della secentesca epoca semifeudale, con i loro «sgherri» dediti a sanguinose vendette, ma la rievocazione del loro feroce senso d’onore e di gelosia (si vedano i versi 1039-1053 del Mattino) serviva a mettere in rilievo, per contrasto, la mollezza e la mancanza di ogni «forte sentire» dei «giovin signori».

92 All’apertura del Mattino (vv. 8-15) il poeta si propone al «giovin signore» (sia esso aristocratico per sangue o per recenti ricchezze) come ammaestratore nell’arte di ingannare il «tedio»:

Come ingannar questi nojosi e lenti

giorni di vita, cui sí lungo tedio

e fastidio insoffribile accompagna

or io t’insegnerò. Quali al Mattino,

quai dopo il Mezzodí, quali la Sera

esser debban tue cure apprenderai,

se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta

pur di tender gli orecchi a’ versi miei.

E piú volte ritorna nel corso del poema la designazione di questa risonanza malinconica e fonda del «lungo peso / di quest’inerte vita», di un «vano» o vuoto assoluto da colmare con l’estremizzazione satirica di occupazioni altrettanto vane, vuote, oziose.

93 Come è la folla «tumultuosa, ignuda, atroce folla / di tronche membra, e di squallide facce, / e di bare e di grucce» che, nel Mezzogiorno (vv. 1057-1059), assedia inutilmente, nella vana speranza di un’elemosina, le soglie del palazzo signorile. Breve intensa stampa settecentesca fra Magnasco e Callot.

94 Mattino, vv. 33-45.

95 Mezzogiorno, vv. 380-382.

96 Mezzogiorno, vv. 940-1011. E si rilegga anche, con conveniente capacità di comprensione, il brano dedicato a Voltaire, associato, soprattutto per la Pucelle d’Orléans, nel suo fondo licenzioso e irreligioso, alle opere di Ninon de Lenclos e ad altri testi di cui il severo moralismo del Parini denunciava il «fedo loto» dell’oscenità e satireggiato soprattutto come «maestro / di coloro che mostran di sapere», ma insieme equilibratamente definito come «troppo biasmato e troppo a torto / lodato ancor.» (Mattino, vv. 598 ss.).

97 Mezzogiorno, vv. 660-693.

98 Per la fondamentale componente sensistica rinvio al libro cosí importante di R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del Parini, Messina-Milano 1933.

99 Per la componente rococò (già individuata e valutata da D. Petrini, La poesia e l’arte di Giuseppe Parini, Bari 1930, e ora in Dal Barocco al Decadentismo, I, Firenze 1957, specie partendo da analogie con la pittura francese) rinvio ancora al mio saggio già citato.

100 Mattino, vv. 842-883.

101 Come dice il Mazzoni nel suo commento, per altre ragioni pregevole (Le Odi, Il Giorno, le poesie minori, Firenze 1938, p. 215).

102 Mattino, vv. 101-103.

103 Mattino, vv. 227-237.

104 Mezzogiorno, vv. 394-402.

105 Mattino, vv. 255-271.

106 Mattino, vv. 67-76.

107 Mezzogiorno, vv. 6-12.

108 Mezzogiorno, vv. 90-102.

109 Mezzogiorno, vv. 1275-1282 (passati poi nel Vespro, vv. 405-412).

110 Mattino, vv. 172-177.

111 Mattino, vv. 204-216.

112 Mezzogiorno, vv. 250-338.

113 Mattino, vv. 1065-1083.

114 Come è sottilmente chiarito dal preambolo:

Qual anima è volgar la sua pietade

all’Uom riserbi; e facile ribrezzo

dèstino in lui del suo simile i danni,

i bisogni, e le piaghe. Il cor di lui

sdegna comune affetto; e i dolci moti

a piú lontano limite sospinge

(Mezzogiorno, vv. 497-502).

115 Mezzogiorno, vv. 517-556.

116 Mattino, vv. 125-157.

117 Già prima, del resto, idee winckelmanniane circolavano in Italia attraverso la traduzione di altri scritti del grande archeologo e teorico tedesco. Sui rapporti piú generali fra la cultura e letteratura figurativa e iconologica, non solo neoclassica, e la poesia pariniana si veda ora l’acuto e preciso volume di G. Savarese, Iconologia pariniana, Firenze 1975.

118 Si noti anche, in accordo con Winckelmann, la decisa preferenza per figure «decentemente nude» o, se vestite, vestite con «abiti di forma piú che si può manifestante il nudo, e di costume semplice ed antico» (Tutte le opere, ed. cit., p. 900).

119 Sicché anche nel rappresentare Pane e Sileno il Parini raccomanda al pittore che ognuno dei due venga atteggiato «nel modo che si suol rappresentare, ma nondimeno di forme proporzionatamente nobili e belle...», con figura «né caricata né ridicola» (Tutte le opere, ed. cit., pp. 897-898).

120 Poesie, ed. cit., II, p. 276.

121 Tutte le opere, ed. cit., p. 651.

122 La educazione, vv. 163-168:

Tal cantava il Centauro.

Baci il giovan gli offriva

con ghirlande di lauro.

E Tetide che udiva,

a la fera divina

plaudia da la marina.

Del resto nelle tavole di Ercolano si trovano immagini di Chirone ed Achille che richiamano i versi citati. Si veda circa il rapporto fra le tavole ercolanensi e la letteratura di secondo Settecento soprattutto il capitolo sul Savioli nel mio citato volume Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento (pp. 59-61).

123 La laurea, vv. 1-10.

124 La recita dei versi, vv. 37-38.

125 La caduta, vv. 85-98.

126 Si veda in proposito il mio saggio su Leopardi e la poesia del secondo Settecento (1962) in La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1973, 19742, pp. 204-207.

127 Poesie, ed. cit., II, p. 268.

128 Si vedano in proposito le pp. 64-65 del mio citato Poetica, critica e storia letteraria che si appuntano soprattutto contro la posizione del Petronio nel suo volume Parini e l’illuminismo lombardo, già da me attaccato nella sua prima edizione del ’57 con una recensione riportata nell’altro mio volume, anch’esso citato, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, pp. 313-325. Non mi pare che la nuova edizione di quel libro (Bari 1972) modifichi sostanzialmente il mio precedente giudizio negativo. Né mi pare che valga la pena di replica l’altisonante e infatuata introduzione che vuol tributario anche me, pur sempre per il Petronio «terzaforzista», alla «scoperta» petroniana della linea dello sviluppo pariniano, se si pensa allo schema già presente nel mio saggio del ’55 su Parini e l’illuminismo (in Carducci e altri saggi cit.). Per me, del resto, tutta la prospettiva metodologica (se cosí si può chiamare) del Petronio resta quella di uno pseudomarxismo sociologico e contenutistico, rozzo e incapace di capire i fatti artistici e poetici, e dunque anche incapace di fare storia se questa viene decurtata di sue forze autentiche come l’arte e la letteratura ridotte a semplici contenuti e ad azioni propagandistiche (i pifferi dietro la rivoluzione e dietro la storia). Sicché il Petronio non può neppure capire come la mia posizione metodologica e pratica non sia «terzaforzista» (e del resto come può esserlo davvero una linea che sfocia nella citata Protesta di Leopardi?), ma è una posizione che dal seno della critica «di sinistra» coerentemente combatte, senza equivoci, ogni vecchia e nuova critica di tipo formalistico-puristico, senza però cadere nel contenutismo sociologico del marxismo «volgare» e zdanovista. Era terzaforzista anche la posizione di Gramsci con la sua distinzione fra giudizio politico-pratico e giudizio estetico? Era terzaforzista quella di un della Volpe o di un Banfi?

129 Il Parini combatte anche la moda di un neoclassicismo convenzionale e non coerente a «classici» modi di vita e di saggezza morale (come è appunto detto nel passo piú avanti riportato della Gratitudine di fronte al «secol folle» che, con proprio danno, «non gusta» e «pur con laudi estolle» quell’«almo sapore» che natura schiude dagli esemplari della grecità).

130 In morte del maestro Sacchini, vv. 1-6.

131 In morte del maestro Sacchini, vv. 79-90.

132 Le nozze, vv. 25-32.

133 A Venere per le nozze di Nice, in Poesie, ed. cit., II, p. 298.

134 La sorpresa, I, in Poesie, ed. cit., II, p. 290. Tanto piú scialbo appare il secondo sonetto (Poesie, ed. cit., II, p. 291) che, con una outrance troppo esplicita e drammatizzata, immagina addirittura il possesso della bella donna amata da parte di un rivale fortunato. La carica piú esplosiva dell’erotismo si esteriorizza e l’«orrida scena» immaginata appare tanto piú voluta e frigida, retorica.

135 Come invece pensò Domenico Petrini nello studio citato, che finiva per trovare il Parini maggiore (che per noi resta quello del Giorno e delle Odi, specie ultime) in questa produzione galante e preziosa.

136 Poesie, ed. cit., II, p. 349.

137 Poesie, ed. cit., II, p. 350.

138 Poesie, ed. cit., II, p. 352.

139 Poesie, ed. cit., II, p. 331.

140 Il brindisi, vv. 1-4.

141 Il brindisi, vv. 45-56.

142 La magistratura, vv. 115-120, 133-134.

143 La magistratura, vv. 31-60.

144 La gratitudine, vv. 1-2.

145 La gratitudine, vv. 41-50.

146 La gratitudine, vv. 56-60.

147 La gratitudine, vv. 61-70.

148 La gratitudine, vv. 81-92.

149 La gratitudine, vv. 189-190.

150 La gratitudine, vv. 201-210.

151 Poesie, ed. cit., II, pp. 18-20.

152 E se nel Sabato del villaggio la stessa base del piacere porta a non contare sul piacere futuro e a godere solo della sua attesa, il ben diverso fondo pessimistico leopardiano utilizza le due prospettive nel dichiarare impossibile una vera felicità presente che non siano il fuggevole respiro della cessazione del dolore e del timore o l’attesa del giorno festivo che si rivelerà tedioso e le speranze vane, nella condizione particolare del fanciullo, di quella «festa» della vita che si rivelerà gremita di pene e di noia. Per il Parini, invece, il piacere è reale se non è turbato dall’avidità smodata di maggiori piaceri impossibili e tali che il loro possesso provoca timore e pena. Il pericolo è per lui dunque la rousseauiana convoitise, la felicità è nel saggio possesso del piacere possibile e commisurato alle condizioni dei singoli. Il Parini è «saggio», anche se in un senso tutt’altro che mediocre; il grandissimo Leopardi non lo è perché aspira ad un’infinita felicità, perché è profondamente scontento della realtà storica ed esistenziale. Perciò Parini collabora con la storia del suo tempo (anche se con un personale apporto), Leopardi sfonda la storia del suo tempo e, cosí facendo, profondamente anticipa il futuro e tanti dei nostri stessi problemi irrisolti.

153 Poesie, ed. cit., II, p. 50.

154 Carlo Antonio De Martini, inviato nel 1785 da Giuseppe II ad ordinare il Foro Lombardo.

155 Poesie, ed. cit., II, pp. 176-177.

156 Sul problema del neoclassicismo pariniano rinvio alla mia discussione cordiale con il Fubini (si veda nel «Giornale storico della letteratura italiana», 1956, la postilla del Fubini ad una recensione ben favorevole della Brizio al mio saggio Parini e il neoclassicismo e la mia Postilla ad una postilla, ora nel citato volume Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, pp. 323-325).

157 Si può cogliere il senso di tali mutamenti anche in due soli versi, come quelli della scena iniziale dell’alba nel Mattino (44-45 nell’edizione del ’63, 12-13 nella nuova lezione manoscritta), che dalla forma primitiva

(il rugiadoso umor che, quasi gemma,

i nascenti del Sol raggi rifrange)

vengono modificati in una forma di eleganza piú distesa e fonicamente piú armonica, meno aggrumata:

fresca rugiada che di gemme al paro

la nascente del sol luce rifrange.

158 Si pensi alla modifica del verso 291 del Mattino del ’63, che nella sua aperta energia («stallone ignobil de la razza umana») chiudeva, con ben diversa forza satirico-sdegnosa, il brano sul costume coniugale moderno, rispetto alla forma del verso 266 della nuova redazione indebolita dalla sostituzione della parola-paragone «stallone» in una parola tanto piú generica e letteraria: «ignobil fabbro de la razza umana».

159 Notte, vv. 141-147.

160 Notte, vv. 288-300:

Ecco il bel fabbro lungo pian dispone

di tavole contesto, e molli cigne,

a reggerlo vi dà vaghe colonne,

che del silvestre Pane i piè leggieri

imitano scendendo; al dorso poi

v’alza patulo appoggio; e il volge a i lati,

come far soglion flessuosi acanti,

o ricche corna d’Arcade montone.

Indi, predando a le vaganti aurette

l’ali e le piume, le condensa e chiude

in tumido cuscin, che tutta ingombri

la macchina elegante: e al fin l’adorna

di molli sete e di vernici e d’oro.

161 E mentre per la Notte rimane un cospicuo numero di frammenti preparati già in versi, per il Vespro restano solo appunti, come altri appunti restano ancora per la Notte, la quale rappresenta cosí nell’economia del lavoro poetico pariniano la parte nuova piú realizzata e ricca di ulteriore materiale elaborato in forma frammentaria o immaginato in forma di appunti.

162 Vespro, vv. 189-213.

163 Vespro, vv. 270-303.

164 Vespro, vv. 307-326.

165 Come parve al Foscolo, che ne aveva risentito la suggestione nel passo, assai letterario, dei cimiteri suburbani dei Sepolcri.

166 Notte, vv. 4-54.

167 Notte, vv. 373-382:

L’altro è l’eroe, che da la guancia enfiata

e dal torto oricalco a i trivj annuncia

suo talento immortal, qualor dall’alto

de’ famosi palagi emula il suono

di messagger, che frettoloso arrive.

Quanto è vago a mirarlo allor che in veste

cinto spedita, e con le gambe assorte

in ampio cuoio, cavalcando a i campi

rapisce il cocchio, ove la dama è assisa

e il marito e l’ancella e il figlio e il cane!

168 Rilievo attuato sempre piú con quella mano sicura di disegno nitido e sensibile, elegantissimo e pur pensile di realtà che può esser colto magari nel piú libero e disinteressato disegno poetico della rappresentazione delle figure delle carte da giuoco (maschere popolari e animali), raccordato al tema della stupidità dei nobili giuocatori dalla labile comicità del rapporto fra quelli e l’asinello raffigurato nella carta che tengono davanti a sé in cui si specchiano (Notte, vv. 656-673):

Qual finge il vecchio che con man la negra

sopra le grandi porporine brache

veste raccoglie; e rubicondo il naso

di grave stizza alto minaccia e grida

l’aguzza barba dimenando. Quale

finge colui che con la gobba enorme

e il naso enorme e la forchetta enorme

le cadenti lasagne avido ingoia.

Quale il multicolor zanni leggiadro

che, col pugno posato al fesso legno,

sovra la punta dell’un piè s’innoltra;

e la succinta natica rotando,

altrui volge faceto il nero ceffo.

Né d’animali ancor copia vi manca,

o al par d’umana creatura l’orso

ritto in due piedi, o il miccio, o la ridente

simmia, o il caro asinello, onde a sé grato

e giocatrici e giocator fan speglio.

169 Si pensi poi alla ripresa sintetica e originalissima di alcune di queste immagini di parti del corpo femminile (entro un affascinante contesto di costume ottocentesco – la mano liberata dal guanto – e in direzione non piú neoclassica) da parte del Leopardi nel Risorgimento, dove questi esprime la sua intensa e sensuale attrazione per la bellezza femminile: «ed alla mano offertami / candida ignuda mano». Inutile è ricercarvi pedantescamente lacerti petrarcheschi, là dove invece il raccordo con la zona settecentesca e, piú, tardosettecentesca è cosí chiaro e storicamente significativo. Cfr. anche, per questo raccordo, quanto dicevo per certo figurativismo del Rolli nel mio Settecento letterario, nel vol. VI della Storia della letteratura italiana dell’editore Garzanti cit., p. 403.

170 Il pericolo, vv. 51-60.

171 Il pericolo, vv. 96-100.

172 Il dono, vv. 37-48.

173 Si tratta della contessa Maria di Castelbarco, sorella minore della Castiglioni.

174 Il messaggio, vv. 85-96.

175 Il messaggio, vv. 7-11.

176 Come il Parini si definisce in una bella lettera del 25 febbraio 1789 (Tutte le opere, ed. cit., p. 1011) a Silvia Curtoni Verza, tutta molto interessante per capire il rapporto del vecchio poeta con queste giovani dame colte e belle, aperte alla poesia e agli ideali di rinnovamento del tempo.

177 Il messaggio, vv. 19-36.

178 Il messaggio, vv. 103-108.

179 Il messaggio, vv. 115-132.

180 Il messaggio, vv. 65-66.

181 Sul vestire alla ghigliottina, vv. 9-16.

182 Sul vestire alla ghigliottina, v. 29.

183 Sul vestire alla ghigliottina, vv. 97-108.

184 Alla Musa, vv. 1-12.

185 Alla Musa, vv. 13-16.

186 Alla Musa, vv. 17-32.

187 Alla Musa, vv. 49-51.

188 Alla Musa, vv. 62-66.

189 Alla Musa, vv. 85-88.

190 Alla Musa, vv. 93-94.